Aldo Moro e gli interrogativi senza certa risposta

Pubblicato il 18 Set 2020 - 9:37am di Emilia Abbo

A ben quarantadue anni di distanza,  gli interrogativi sul rapimento e l’omicidio del democristiano Aldo Moro sembrano destinati a rimanere senza una definitiva risposta.  Ripercorriamo insieme questo tragico caso di cronaca (anche alla luce delle ultime indagini che si sono concluse nel dicembre 2018) senza mettere in secondo piano la personalità umana e politica del grande statista. Le lettere che Aldo Moro scrisse durante la prigionia sono state oggetto di profonda controversia ed esasperate analisi dietrologiche; tuttavia restano tuttora l’ ago della bilancia di un intricato ed assai complesso percorso interpretativo.

1) Fra i responsabili della strage di via Fani  c’erano anche degli ‘infiltrati’ che non appartenevano alle B.R.?

La mattina del 16 marzo 1978 lo statista democristiano Aldo Moro uscì dalla sua abitazione romana di Via Forte Trionfale per recarsi prima a messa nella vicina chiesa di Santa Chiara e poi in Parlamento, dove quel giorno si sarebbe votata la fiducia al quarto governo Andreotti. Era quindi una giornata importante per la politica italiana, soprattutto perchè il partito comunista, guidato da Enrico Berlinguer, avrebbe appoggiato i ministri proposti dalla D.C., dando quindi luogo a quel fatidico ‘compromesso storico’, del quale lo stesso Moro era stato l’artefice. Nel 1976 D.C. e P.C.I. avevano raccolto complessivamente  il settantatrè per cento dei voti dell’elettorato, e quindi i due partiti avevano pensato che era meglio cooperare (favorendo anche una ventata di epocale rinnovamento) piuttosto che diventare avversari politici.

Aldo Moro, quella mattina del sedici marzo, alle nove, si trovava sul sedile posteriore di una Fiat 130 berlina blu guidata dall’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, al cui fianco si trovava il maresciallo caposcorta Oreste Leonardi. Al seguito, su un’Alfa Romeo Alfetta bianca, c’erano invece tre agenti di polizia: Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.  Quando i due veicoli giunsero al punto in cui Via Fani incrocia via Stresa,  il loro percorso venne ostacolato da un’altra macchina, una Fiat 128 bianca con la targa C.D. del corpo diplomatico (che era stata sottratta nel 1973 all’ambasciata del Venezuela), cosicchè l’Alfetta tamponò la Fiat 130, che si trovò ‘incastrata’ fra un’auto amica ed una nemica.  A questo punto i terroristi iniziarono a sparare, uccidendo la scorta e portando via Moro su un’altra auto (una Fiat 132) cosicchè la Fiat 128 rimase anch’essa abbandonata sul luogo della strage. Secondo la versione dell’edicolante l’azione sarebbe iniziata qualche momento prima che la Fiat 130 si arrestasse completamente, e questo è stato accreditato anche dalle ultime indagini, indette da una seconda commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal deputato Giovanni Fioroni, e denominata ‘Commissione Moro 2’.  Gli uomini del R.I.S. sono tornati anche sul luogo della strage e ne hanno ricostruito le dinamiche con strumenti informatici e metodi più sofisticati rispetto a quelli dell’epoca.

Gli inquirenti, per quel che concerne la strage di via Fani, hanno focalizzato la loro attenzione soprattutto sul punto in cui sorgeva un bar (oggi ristorante), da cui partirono gli spari e davanti  al quale si trova tuttora una siepe di edera che servì come appostamento in attesa del passaggio di Moro e della scorta. Quella mattina suddetto bar doveva per forza essere chiuso, altrimenti i clienti avrebbero sicuramente notato i killer armati e travestiti da aviatori. Inoltre, anche la visuale di questi ultimi sarebbe stata ostacolata dalle macchine in sosta davanti al locale (quella mattina rimpiazzate soltanto da una mini verde).  Diverse ipotesi sono state sollevate sulla ragione per cui quella mattina il locale era chiuso (da motivi di rinnovo locali fino a cessazione dell’attività), ma stando alla testimonianza dell’attore Francesco Pannofino (il quale all’epoca era un diciottenne che abitava in zona) il locale, essendo giovedì, era chiuso per riposo settimanale (fonte 3, p.64). Anche il venditore ambulante che lavorava in quello stesso angolo di strada quella mattina non si presentò a causa delle – non accidentalmente- forate ruote del suo camioncino. Un documento del servizio segreto italiano Sismi (risalente al 1978) mette addirittura suddetto locale al centro di un traffico d’armi di stampo internazionale (fonte 3, p.61) – un’ipotesi che rimase tale poichè la denuncia proveniva da un contrabbandiere che fu definito insano di mente- ma che fortifica la dietrologia che vi fosse una complicità fra i terroristi ed il gestore del bar. Una complicità che avrebbe perfino permesso ai terroristi di accedere al bar, depositandovi le loro ingombranti armi. Se del resto è accertato che gli attentatori si nascosero dietro la  siepe, è alquanto strano che vi siano arrivati dal lato della strada e senza dare minimamente nell’occhio.

Nel libro-inchiesta di Fioroni e Calabrò  si fa menzione di un ricercatore italiano il quale avrebbe mostrato agli investigatori della Commissione Moro 2 un documento della Stasi (il ministero per la sicurezza dello stato dell’ex- D.D.R.) nel quale si illustrano punti in comune fra il sequestro di Moro e quello di un industriale tedesco (rapito dalla R.A.F. nel 1977), alimentando quindi il sospetto che ci fosse stata – in piena guerra fredda- una sorta di collaborazione fra le due organizzazioni terroristiche (quella italiana e quella tedesca), al fine di sgominare un comunismo che, definendosi ‘democratico’,  aveva perso la sua originaria ‘purezza’.  Stando a questa teoria, la cosiddetta ‘operazione Fritz’ non si riferirebbe soltanto alla  ‘frezza’, ovvero alla ciocca di capelli bianchi che caratterizzava la capigliatura di Moro, ma anche a qualche infiltrazione di stampo teutonico. Un’ipotesi che verrebbe alimentata anche da alcune lettere  della R.A.F.  che sono state rinvenute nel covo milanese di Monte Nevoso il 1 ottobre 1978.

Suddetta ipotesi verrebbe inoltre avvalorata dalla ‘geometrica potenza’ della strage di Via Fani, che spiazzò perfino i capi storici delle B.R. (all’epoca detenuti) in quali si meravigliarono delle ‘capacità militaresche’ esibite dai loro compagni di ‘seconda generazione’, le cui armi risalivano ai tempi della seconda guerra mondiale e quindi “si inceppavano tutte” (fonte 3, p. 48). Ma questo nulla toglie all’eroismo della scorta. Il caposcorta Leonardi ebbe appena il tempo di voltarsi per far abbassare Moro (mettendolo al riparo dagli improvvisi spari), e l’autista Ricci di cercare invano un varco, una via d’uscita per metterlo in salvo.  Il capopattuglia Zizzi provò coraggiosamente a reagire, ma venne gravemente ferito, morendo poco dopo in ospedale. L’agente Iozzino riuscì ad uscire dalla macchina ed a sparare due colpi per poi essere freddato da una raffica di spietati spari. Il corpo disteso sull’asfalto, e pudicamente coperto da un lenzuolo, che comparve sulla prima pagina di tutti i giornali, è il suo.

Non è quindi affatto escluso che, oltre alle B.R., vi fosse qualcun altro a sparare quei novantuno colpi. Del resto, non sono più un mistero -soprattutto dopo le ultime dichiarazioni di Abu Sharif (lo stretto collaboratore di Arafat) – i contatti che le B.R. avevano, oltre che con gruppi di lotta armata tedesca, anche con quelli palestinesi (senza dubbio attivi nella primavera del 1978) dai quali sarebbero state provviste di armi in cambio di aiuto nella lotta contro gli occupanti israeliani. Non a caso Moro, in qualità di ministro degli esteri, fece suggellare il ‘lodo Moro’, un patto segreto fra l’ intelligence militare italiana ed i servizi segreti palestinesi. L’accordo prevedeva, in cambio dell’incolumità del territorio italiano da attacchi terroristici, “la possibilità giuridica di liberare eventuali militanti palestinesi arrestati in flagranza di reato e il libero transito delle loro armi dal nord-Europa al Medio Oriente” (fonte 1, p. 106). Moro ritenne opportuno stipulare questo accordo in seguito alla strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973, che fu provocata dall’assalto ad un aereo della Pan Am (una ritorsione per l’aiuto che l’ intelligence militare italiana aveva dato all’ esercito israeliano durante la guerra del Kippur).

Il comunismo ‘illuminato’ di Enrico Berlinguer non era malvisto soltanto dai terroristi tedeschi, ma anche dalla  stessa Repubblica Democratica Tedesca (D.D.R.), che era caratterizzata da un estremismo che non disdegnava nè l’uso delle armi e nè il supporto- in caso di forte necessità- dei gruppi di estrema destra.  La Stasi avrebbe quindi volentieri esercitato sulle B.R. una funzione di paternalistico controllo, il che non escluderebbe a priori una sua intromissione nel rapimento di Aldo Moro, l’uomo politico che di questo singolare P.C.I. era diventato ‘alleato’.

In una sua famosa lettera al senatore democristiano Paolo Emilio Taviani (recapitata e pubblicata durante il sequestro) Moro chiede: “Vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana e tedesca?”. E’ interessante notare, per inciso, come Moro avesse usato la congiunzione ‘e’, quasi ad indicare che queste due potenze -per quel che riguardava il suo destino- fossero accomunate da analoghi interessi. La Casa Bianca non vedeva -per ovvie ragioni-  di buon occhio l’ avvicinamento della D.C. al P.C.I., e questo lo espresse con un comunicato ufficiale del 12 gennaio 1978 (fonte 2, p. 105), ribadendo quello che il segretario di stato statunitense Henry Alfred Kissinger aveva già affermato durante le tristemente famosa visita presidenziale italiana del 1974, durante la quale – con un discorso di assai cattivo gusto-  paragonò scetticamente “l’evoluzione democratica dei comunisti italiani” al dogma dell’ Immacolata Concezione (fonte 2, p.139). Non fu certamente un caso se poi Moro – anch’egli presente in quel frangente-  fu colto da un malore, tanto che i giornali parlarono perfino di un suo ritiro dalla scena politica.  I rapporti con gli ‘americani’ erano quindi assai tesi, anche perchè questi ultimi accarezzavano l’idea di un’Italia capitalista e tecnocratica, formata da giovani leve che ‘parlavano inglese’,  laddove Moro non voleva che l’ Italia diventasse una specie di satellite degli U.S.A., sia a livello economico che militare. Temeva l’idea di un’Italia in mano al potere delle multinazionali, essendo anche presente “la questione cruciale della politica energetica di approvvigionamento nel corso della prima grave crisi petrolifera della storia contemporanea” (fonte 1, p.109).

La figura di Moro, sul piano internazionale, veniva screditata anche per via dello ‘scandalo Lockheed’, che prendeva il nome dalla società aeronautica americana che era stata oggetto di un incasso di tangenti in occasione di un acquisto di aerei. In questa incresciosa vicenda di corruzione (nella quale si cercava il misterioso tangentista italiano ‘Antelope Cobbler’) vennero implicati Luigi Gui e Mario Tanassi, due ex-ministri (rispettivamente democristiano e social-democratico). Del primo Moro (in un pubblico discorso del 9 marzo 1977)  prese a spada tratta le difese, partendo dal presupposto che una ‘D.C. disonesta’ fosse una contraddizione di termini e quindi non potessero esistere ‘mele marce’ nel partito. Pronunciò anche la famosa frase “non ci faremo processare sulle piazze”, dopodichè i due imputati vennero mandati a giudizio di fronte alla corte costituzionale, con l’assoluzione del primo e la condanna del secondo.

Tuttavia, questo non significa che la Casa Bianca avesse un vero interesse nel far sequestrare Moro. Semmai, temevano molto che, durante il sequestro, venissero rivelate informazioni che dovevano rimanere segrete, in primo luogo quelle che riguardavano l’organizzazione segreta ‘Stay Behind’  (in Italia denominata ‘Gladio’), in base alla quale la N.A.T.O. aveva creato dei nuclei operativi di agenti dormienti nei paesi alleati, al fine di intervenire con qualsiasi mezzo in caso di invasione sovietica oppure di avanzamento di partiti e movimenti comunisti. Non è sicuro al cento per cento che Moro sapesse di questa organizzazione, anche se dai documenti ritrovati nel suo ufficio di via Savoia si evince che era al corrente di informazioni riguardanti l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, e quindi che andavano ben oltre il suo ruolo politico  (fonte 2, p. 111).  Gli ‘americani’ potrebbero quindi aver avuto un ruolo nel destino di Moro, soprattutto per impedire la sua liberazione. Le sue lettere, in particolar modo, erano viste come delle mine vaganti, poichè potenzialmente in grado di rafforzare il blocco sovietico.  E si temeva anche parecchio che Moro sarebbe riuscito – tramite qualche intermediario- ad avvalersi di documenti ufficiali che avrebbero smentito chi lo riteneva inattendibile.  Certamente non a caso, venne convocato dal ministro degli interni l’ esperto americano Steve Pieczenik (capo dell’ ufficio per la gestione dei problemi di terrorismo negli U.S.A.)  il quale aveva come unico intento quello di sapere fino a che punto l’ostaggio potesse ‘collaborare’ coi suoi sequestratori. Sul suo libro Abbiamo ucciso Aldo Moro, Pieczenick, assi ipocritamente, lascia trapelare che avesse soprattutto a cuore la stabilità di un’ Italia che stava andando a rotoli: “Quando ci sono attentati, procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con organizzazioni terroristiche. Se cedi l’intero sistema cadrà a pezzi”. Pieczenick , quindi, ‘per il bene dell’Italia’, incoraggiò la linea dell’intransigenza, non alzando un dito per salvare Moro.

Leonardo Sciascia (nel suo saggio del 1978, l’ Affaire Moro), pur non escludendo a priori infiltrazioni straniere,  trova le B.R.  un fenomeno tipicamente ‘casalingo’ ed anche autosufficiente nella sua italianità, poichè  rileva punti in comune fra questa organizzazione terroristica e ‘cosa nostra’ (fonte 4, p. 136).  La teoria di un’impronta squisitamente  italiana nel rapimento di Moro è stata avvalorata anche dalla (casuale?) presenza – tra la folla -accorsa quella mattina a Via Fani- di un boss della ‘ndrangheta, Antonio Nirta (deceduto nel 2015 a 96 anni) che venne immortalato in una foto che si trova nell’archivio del giornale Il Messaggero (fonte 3, p. 69).

Quando Moro venne rapito, il presidente della regione Sicilia era il suo ‘pupillo’ Piersanti Mattarella, il quale era stato eletto, a sua volta, con quell’appoggio esterno del P.C.I. che si voleva applicare anche a livello nazionale. Lo spirito riformista di Mattarella verrà spezzato da un delitto mai del tutto chiarito, avvenuto il 6 gennaio 1980,  nel quale si  intrecciano “mafia e terrorismo nero”. (fonte 2, p. 145).

Se quella di Moro fosse stata una faccenda soltanto ‘nostrana’ forse in qualche modo si sarebbe risolta, ma essendo una questione internazionale c’era di mezzo anche un discorso di patti ed alleanze, oltre che di immagine.  L’Italia si trovava in mezzo ad una logica di ‘blocchi contrapposti’ che era rappresentata non solo dal campo sovietico e da quello atlantico ma anche dal nord e dal sud del Mediterraneo. L’Italia era “un gigantesco molo d’attracco geografico, politico, militare, commerciale, spionistico ed una passerella di transito per tanti traffici, leciti ed illeciti, che collegavano i disordini del medio-oriente alle geometrie dell’Europa atlantica”. (cit. da Miguel Gotor, fonte 1, p. 273).  In breve, un punto nevralgico negli equilibri sovranazionali.

2) Dove è stato tenuto Moro durante il sequestro? E dove è stato ucciso?

 Secondo la versione ‘consacrata’ con la sentenza del 12 ottobre 1988, Moro sarebbe stato trasferito  dall’appartamento al piano terra di via Montalcini 8 al garage sottostante, nascosto in una cesta. Sarebbe poi stato fatto distendere nel portabagagli della Renault 4 color amaranto con la testa riparata dal lembo di una coperta, ed a quel punto ucciso dagli spari di una pistola (che si sarebbe inceppata) e poi di una mitraglietta.

Secondo le ultime indagini della scientifica, Moro potrebbe essere in effetti stato ucciso in un garage (come attestano i cinque bossoli ritrovati nella Renault) ma sulla coperta che lo avrebbe riparato non vi sono tracce di spari. E’ quindi più probabile che la vittima si trovasse a viso scoperto (la ferita sul pollice indica l’istintivo tentativo di riparare il viso con la mano). Il fatto che i proiettili fossero piccoli e provenienti da armi obsolete (la pistola risaliva al secondo dopoguerra) fa aleggiare il sospetto che in realtà Moro non sia morto direttamente a causa degli spari, ma dal dissanguamento provocato dalle ferite (fonte 3, p. 23).

Il box del garage in questione, che negli anni Ottanta non era ancora stato ampliato, avrebbe potuto contenere la Renault (fatta entrare in retromarcia), ma non sarebbe stato possibile aprire il suo portellone senza lasciare dello spazio in fondo, e quindi senza farla fuoriuscire anteriormente dal box. Ulteriore distanza sarebbe poi stata necessaria per sparare dei colpi a distanza ravvicinata, ma non così ravvicinata da mettere a repentaglio l’incolumità dell’omicida a causa dei colpi di rimbalzo. In breve, la porta basculante del box sarebbe rimasta aperta, con l’auto fuoriuscente all’esterno, e quindi ben visibile qualora un condomino fosse sceso nel garage (evento non affatto improbabile, dato che erano le sei e trenta di un giorno feriale). Anche le mura del garage erano di modesto spessore, il che vuol dire che i mattinieri frequentatori di Villa Bonelli (che facevano footing o portavano a spasso il cane) avrebbero potuto avvertire del trambusto o dei rumori anomali (spari silenziati non significava, del resto, spari muti).

Per quale ragione, data l’alta rischiosità che comportava, Moro sarebbe quindi stato ucciso in quello stretto box? Del resto, le Brigate Rosse non erano affatto povere (il sequestro dell’ ingegnere ed imprenditore navale Pietro Costa, organizzato nel 1977 dalla colonna genovese, aveva fruttato loro un miliardo e mezzo di vecchie lire)  e quindi potevano permettersi di comprare (anche grazie a brigatisti ancora incensurati) appartamenti in tutta Italia.  Se davvero fosse stato rinchiuso a Via Montalcini 8 (uno dei covi della capitale) Moro sarebbe stato tenuto in uno spazio di pochi metri quadri, nascosto da una parete-libreria. Tuttavia l’autopsia, svolta lo stesso giorno del ritrovamento del corpo in via Caetani, rivelò che Moro aveva mantenuto una muscolatura tonica, incompatibile con un’assenza di movimento. Considerando poi il fatto che durante l’azione del rapimento si era fratturato quattro costole (fonte 1, p. 187) e che poi soffriva di claustrofobia (fonte 1, p. 186), è a maggior ragione inverosimile che avrebbe resistito tutti quei giorni in uno spazio angusto.

I rapitori, la mattina della strage di Via Fani, sarebbero fuggiti su tre auto, poi abbandonate a via Licinio Calvo, dopo aver fatto trasbordare l’ostaggio su un furgone. Un abitante della zona, che giunse in questura il 20 marzo, affermò che uno di questi veicoli (una Fiat 128 blu) non venne lasciato in suddetta via il giorno del sequestro, bensì due giorni dopo, il 19 marzo (fonte 3, p. 84)Il fatto che questa macchina, quando venne rinvenuta, non fosse bagnata, seppur in quell’arco di tempo fosse piovuto, lascia supporre che la vettura fosse stata tenuta al coperto, e quindi che vi fosse un covo nelle vicinanze. In altre parole, Moro non sarebbe stato trasferito dall’auto ad un furgoncino sulla pubblica strada (nello specifico sulla piazza di Madonna del Cenacolo) ma sarebbe stato portato direttamente da Via Fani al primo (e forse unico) luogo della detenzione. A rigor di logica, questo luogo doveva trovarsi dalle parti di via Licinio Calvo, altrimenti il rischio del trasbordo sarebbe stato sostituito con un altro, ovvero quello di venir riconosciuti dalle forze dell’ordine, che stavano già svolgendo ricerche a tappeto in ogni angolo della città.  L’ipotesi di un covo nei paraggi di via Licinio Calvo venne segnalata alla questura lo stesso 19 marzo da un anonimo, che parlò -confermando una segnalazione che era anche in mano alla guardia di finanza (fonte 3, p.114) – di un nascondiglio delle B.R. a via Massimi, una via nella quale vi erano dei palazzi ‘extraterritoriali’, ovvero coperti da immunità diplomatica. La palazzina di via Massimi 91, ad esempio, apparteneva allo I.O.R. (la banca vaticana) ed era provvista di un garage semi-nascosto che per le B.R. sarebbe stato sicuramente adatto sia come parcheggio che per svolgervi un delitto. Anche gli appartamenti di questo stabile erano più spaziosi rispetto a quelli di Via Montalcini 8, e quindi se ne sarebbe potuta ricavare un’area più ampia per confinare l’ostaggio.

Il dissacrante giornalista Mino Pecorelli conobbe Moro durante un convegno, e divenne, in un certo senso, ‘ossessionato’ da lui, poichè dal marzo 1978 al marzo 1979 scrisse ininterrottamente articoli che lo riguardavano, finchè pagò con la vita le inedite informazioni che riusciva a carpire da fonti rimaste sconosciute (il 13 giugno 1978, ad esempio, pubblicò tre lettere di Moro, rimaste fino a quel momento segrete). Ebbene, il 23 marzo 1978 Pecorelli scrisse che Moro si trovava in un ‘appartamento borghese’ (fonte 3, p.119).  Gli stessi brigatisti detenuti, durante un’intercettazione ambientale, parlarono di un Moro che era ‘trattato come un signore’, che si lavava quattro volte al giorno, che mangiava bene e scriveva comodamente (fonte 3, p.120 ). E Moro, in una lettera recapitata alla moglie il 29 marzo, scrive di essere “bene alimentato ed assistito con premura”.  Chiaramente l’idea che Moro potesse trovarsi in una ‘prigione dorata’, che aveva in qualche modo a che fare col Vaticano, non piaceva a molti. Si preferì immaginarlo in un appartamentino in zona Portuense.

All’indirizzo di Via Massimi 91 c’erano anche altre entità che -forse- si pensò che non valesse la pena di scomodare troppo in nome della liberazione di Moro. Sciascia ritiene che Moro alludesse a questo luogo quando (nella lettera recapitata il 29 marzo al ministro dell’ interno Francesco Cossiga) scriveva di trovarsi “sotto un dominio pieno e incontrollato”. Proprio qui, dove c’erano “alti prelati, agenzie di copertura americane, informatori libici, estremisti di sinistra, tutti insieme nella stessa palazzina” (cit. da fonte 2, p. 257).

3) Perché Moro non è stato liberato grazie ad un blitz delle forze dell’ordine? 

Le ricerche delle forze dell’ordine per ritrovare e salvare Moro durante i cinquantacinque giorni del sequestro non ebbero buon esito, e gli inquirenti dell’epoca sono stati spesso oggetto di critica per diverse incongruenze e per non aver svolto le indagini con adeguata accuratezza. Un esempio fra tutti fu quello che ha a che fare con quella famosa seduta spiritica che si svolse a Bologna il 2 aprile 1978, alla quale presero parte diversi professori universitari, fra cui anche Romano Prodi. Ebbene, in questo frangente venne pronunciata la parola ‘Gradoli’, ma gli investigatori non pensarono a via Gradoli (che sarebbe stata la deduzione più semplice ed immediata) bensì ad una cittadina del viterbese che aveva questo nome. La scoperta del covo di via Gradoli (una base logistica che ebbe molto peso nel caso Moro) avvenne alcuni giorni dopo (il 18 aprile) ma non grazie alla sagacia delle autorità che indagavano a riguardo, bensì per via di un allagamento causato da una perdita d’acqua accidentale, che indusse gli uomini del pronto intervento (chiamati da una condomina) ad allertare le forze dell’ordine, probabilmente perchè avevano notato qualcosa di sospetto in un appartamento in cui, stando a quel che scrive Sciascia, non vennero rilevate le impronte digitali e nemmeno “prontamente ed accuratamente inventariato e vagliato il materiale rinvenuto”(fonte 4, p. 179) . Tra l’altro, quello stesso giorno giunse anche il falso comunicato delle B.R. (che era invece opera di un falsario legato alla banda della Magliana) nel quale si parlava del corpo di Moro nascosto in fondo al lago della Duchessa, quindi tutta l’attenzione venne rivolta in questa infruttuosa direzione. Sciascia, che scrisse la sua opera L’affaire Moro  all’epoca dei fatti (e con un innegabile coinvolgimento emotivo) parla di un grande dispiegamento di forze che avvenne durante quei giorni del sequestro, ma che furono più scenografiche (lui usa l’espressione “operazioni da parata”) piuttosto che un modello di concreta efficienza (fonte 4, p.172).

Moro si rivolse  in primis a Francesco Cossiga (allora ministro dell’interno) nella lettera consegnata il 29 marzo, che avrebbe dovuto rimanere segreta, ma che poi di fatto fu data in pasto alla stampa dai sequestratori. Se fosse stato mantenuto il segreto postale, forse la vicenda avrebbe preso un’altra piega, poichè sarebbe stato attenuato l’invadente condizionamento dell’opinione pubblica, sia per quel che concerneva la trattativa e sia per quel che riguardava le ricerche. Non poteva certamente passare inosservato un passaggio come questo: ‘Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurli a salvarli, è inammissibile.” E’ vero che Cossiga, affiancato dal suo team di esperti, sembrava più interessato a far svolgere indagini grafologiche che a darsi concretamente da fare per ritrovare l’ostaggio, ma è anche vero che quando, quella mattina a via Caetani, davanti al corpo senza vita di Moro (abbandonato e riverso nel portabagagli di un’auto) pronunciò la famosa frase “Abbiamo fallito”, seguita dalle sue dimissioni, forse si riferiva -soprattutto- a quella mancata coordinazione nelle ricerche di cui accennava Sciascia.

Del resto, districarsi fra le tante segnalazioni che giungevano ogni giorno in questura (molte delle quali inviate da inaffidabili mitomani) non era affatto semplice. Tanti furono i sopralluoghi inutili che distrassero da quelli proficui, tante furono le porte sfondate di innocenti cittadini, quando quelle dei veri implicati rimanevano illese. Era un po’ come cercare un ago in un pagliaio, dove solo un caso fortuito, a quel punto, avrebbe potuto fare il miracolo. Per non parlare degli improvvisati esegeti delle lettere di Moro, ovvero di coloro che vi coglievano qualche indizio in codice che però non aveva alcun plausibile fondamento (ad esempio, quando Moro, sempre nella suddetta lettera a Cossiga,  scrisse la parola “impantanati” si pensò che potesse trovarsi in una zona  acquitrinosa, come Valle Aurelia). Ogni epistola divulgata era il regno delle mille possibilità, denso di combinazioni, di probabilità scartate (come direbbe Italo Calvino) e di significati nascosti, una sorta di “gioco linguistico”  dove perfino la parola “Rana” (il cognome di un suo fido collaboratore) avrebbe alluso alla parola “Roma”.  Su ogni lettera affiora tuttora una girandola di improvvisati Sherlock Holmes, poichè si cercano parole appositamente scelte, errori intenzionali, significati sottesi. Può anche darsi che Moro abbia pensato, ed anche provato, a nascondere qualche messaggio in codice nelle sue lettere. Chi, del resto, al suo posto non lo avrebbe fatto? Lo stesso Sciascia era convinto che nelle lettere di Moro fossero disseminati messaggi criptati da decifrare, anche se, a suo parere,  si sarebbe dovuto cercare, più che il gioco di parole, il termine dissonante, decontestualizzato, disattento, che strideva col suo stile ordinato e meticoloso. Ad esempio, in una lettera non recapitata, Moro si rivolge al suo amico sacerdote, Don Mennini, e gli affida tre lettere da consegnare a tre onorevoli, del quale uno “può essere all’albergo Minerva”. E poi Moro aggiunge: “mi pare proprio si chiami così, tutto di fronte alla chiesa”. In realtà l’hotel non si trovava di fronte alla chiesa, ma di lato, e di fronte c’era invece una sede extra-territoriale dell’accademia pontificia. Questa svista, se non fosse casuale, potrebbe indurci a pensare che Moro si trovasse in un’ambasciata (ipotesi che piaceva molto a Sciascia) oppure in quella famosa palazzina di Via Massimi 91, proprietà dello I.O.R.

4) Il Papa Paolo VI  avrebbe potuto fare di più per salvare Moro?

Il Papa Paolo VI – che Moro aveva conosciuto personalmente quando era giunto a Roma (dalla sua nativa Puglia) in qualità di presidente del gruppo studentesco cattolico della F.U.C.I. – aveva pianificato di versare un riscatto ai brigatisti per la liberazione di colui che per lui era come ‘un fratello’, e che sarebbe equivalso a dieci miliardi di vecchie lire (fonte 1, p.261).  La trattativa sarebbe stata gestita da un cappellano carcerario, don Cesare Curioni, il cui collaboratore (testimone della Commissione Moro 2) avrebbe visto coi suoi occhi le banconote custodite ed accatastate a Castel Gandolfo nonchè avvolte in fascette recanti il nome di una banca di Tel Aviv, poichè “frutto dell’impegno personale di un imprenditore istraeliano”  (fonte 3, p. 145). In ogni caso, una cosa è certa: le B.R., almeno per quel che riguardava Moro, non chiedevano denaro, ma solo la liberazione di ben tredici detenuti politici. Un riscatto in denaro, tutto sommato, avrebbe potuto permetterselo anche il governo italiano, almeno stando alle parole di Giulio Andreotti, il quale nei suoi Diari  (pubblicati dalla casa editrice Rizzoli)  il 5 maggio del 1978 scrisse: “Se fosse una questione di denaro, sia noi che il Vaticano saremmo all’altezza.” (cit. da fonte 3, p. 148).

Moro accenna spesso al Papa nelle sue lettere, e si rivolge a lui anche in maniera diretta. Nella lettera (recapitata, ma non divulgata) e scritta intorno all’otto aprile Moro gli chiede di intercedere presso il governo per incoraggiare uno scambio di prigionieri, ovvero per favorire “una pratica umanitaria ” che  “è in uso presso moltissimi Governi, i quali danno priorità alla salvezza delle vite umane e trovano accorgimenti di allontanamento dal territorio nazionale per i prigionieri politici dell’altra parte, soddisfacendo le esigenze di sicurezza”. Un concetto espresso, seppur più lapidariamente, anche nella lettera consegnata il 20 aprile, dove scrive: “Solo la Santità Vostra può porre di fronte le esigenze dello Stato,  comprensibili nel loro ordine, le ragioni morali ed il diritto alla vita.” Quella stessa sera il Papa rivolse un appello ai rapitori, nel quale li pregava “in ginocchio” di liberare l’ostaggio “semplicemente, senza condizioni”. Un appello che strideva con il lucido pragmatismo di Moro, poichè si poneva sulla linea dell’ intransigenza, ovvero dei politici che rifiutavano di trovare un accordo coi brigatisti. Un appello che fu assai meno risolutivo rispetto a quello che Pio XII rivolse ai tedeschi per la liberazione di quel partigiano Giuliano Vassalli che Moro, sempre nella lettera del 20 aprile, definì  “nella <sua> stessa condizione”. Con questa espressione, apparentemente anacronistica, Moro intendeva forse dire che anche in un clima di  ‘guerriglia’, nel quale si mietevano vittime in tempi di pace, sia lo Stato che la Chiesa avrebbero dovuto in qualche modo tutelarlo.

Nella penultima lettera recapitata alla moglie Eleonora, quella del cinque maggio, Moro scrive: “Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo.” Che cosa intendeva Moro con queste parole? Pensava davvero che Paolo VI avrebbe potuto “ripetere il gesto efficace  di SS. Pio XII in favore del giovane Prof. Vassalli?”? E sarà proprio vero che il Vaticano-a parte la vana preparazione di un riscatto in denaro ed un irrealistico appello andato a vuoto- abbia fatto davvero ‘pochino’ per Moro?

Don Antonello Mennini, figlio del direttore dello I.O.R., nonchè destinato ad una brillante carriera diplomatica, conobbe Moro quando era ancora seminarista ed all’epoca del sequestro era vice-parroco.  Questo sacerdote, seppur non l’abbia mai ammesso, avrebbe visto Moro durante i giorni della prigionia, essendo stato condotto bendato nel covo (fonte 2, p.155). Il religioso potrebbe non aver soltanto confortato e confessato Moro, ma anche essere stato utilizzato come tramite per aver notizie della famiglia, che in una lettera al Papa (consegnata e non divulgata) definiva “disgraziata” ed “in cima alle <sue> angosciate preoccupazioni”.  Tuttavia, non è nemmeno da escludere che Moro fosse messo al corrente di questioni riservate di ben altro genere, come si evince da una lettera in cui chiede per quale ragione “si è bloccata la richiesta di Young”.  David Young era un ambasciatore americano che, in quel periodo, era anche presidente del consiglio di sicurezza dell’O.N.U., ed il suo intento era quello di diffondere, avvalendosi del suo autorevole ruolo, un appello per la salvezza del prigioniero (questa iniziativa venne però respinta, e quindi fu portata avanti solo a titolo personale). Com’era possibile che Moro e/o i suoi carcerieri potessero avere “informazioni tanto riservate e interne alla vita dell’O.N.U., quale ad esempio lo stato di avanzamento di una pratica del Consiglio di sicurezza?” (fonte 1, p.84). Dal momento che il destinatario della lettera (l’avv. Giuseppe Manzari) affermò, e verosimilmente, di non sapere nulla sull’argomento (fonte 1, p. 84), altolocate conoscenze in ambito diplomatico pontificio potrebbero spiegarlo, poichè – da Paolo VI in poi – c’era stata una convergenza di finalità fra la Santa Sede e le Nazioni Unite. Il Vaticano era informato di quel che avveniva nel Consiglio di sicurezza di questa istituzione già da prima del 1945 (anno di approvazione della sua Carta) tanto che espresse perfino riserve a riguardo (si veda, a tal proposito, l’ articolo del giornalista vaticanista Andrea Gagliarducci “Qual è l’importanza della Santa Sede alle Nazioni Unite?” pubblicato l’11 luglio 2018).

A parte la suora carceraria che avrebbe fatto “da spola fra brigatisti dissociati ed il Quirinale” (fonte 2, p. 49), un ruolo potrebbe averlo avuto anche Luciano Casimirri  (il leggendario ‘capitano Corelli’ durante la seconda guerra mondiale a Cefalonia) nonchè responsabile della sala stampa vaticana sotto Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. Ma non solo. Questa personalità era anche il padre del brigatista – poi latitante in Nicaragua- che aveva preso parte alla strage di Via Fani con la moglie (colei che, agitando un mazzo di fiori, diede il segnale all’arrivo dell’auto su cui si trovava Moro). Chi, più di lui, avrebbe potuto farsi da tramite per una -anche se inutile- trattativa, visto e considerato che in territorio Vaticano nessuno l’avrebbe intercettato?

Il Papa Paolo VI, assieme al vescovo Ugo Poletti, il 13 maggio celebrò la commemorazione funebre ‘ufficiale’ per Moro nella basilica di San Giovanni in Laterano, alla presenza dei politici, inclusi quei democristiani  ai quali Moro  si era così rivolto: “con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona”.  In adempimento alle volontà espresse nella lettera recapitata all’ On. Zaccagnini il 24 aprile (dove scrisse: “Chiedo che ai miei funerali non partecipino nè autorità dello Stato nè uomini di partito”), la Messa si svolse senza il defunto ed i suoi congiunti. Il funerale vero e proprio era stato svolto tre giorni prima in forma privata, con la salma tumulata a Torrita Tiberina, la località nei pressi della capitale dove lo statista amava trascorrere momenti di quiete. Durante l’omelia, il Pontefice, non sapendo a chi volgere il suo anatema, se la prese con Dio, pronunciando le parole “Tu, Signore, non hai eseguito la nostra supplica” (cit. da fonte 4, p. 158).

5) Fra i politici italiani, ci fu qualcuno che si attivò concretamente per la liberazione di Moro?

Il presidente Giovanni Leone (che aveva iniziato, ancor prima di Moro, il superamento della linea centrista della D.C.) fu uno dei pochi democristiani con cui Moro non se la prese nelle sue lettere, e difatti sarebbe stato disposto, “col cuore aperto e la penna in mano” (fonte 1, p.116) a graziare una detenuta politica (non implicata in atti terroristici) che compariva nella lista dei tredici pregiudicati rivendicati dalle B.R. (fra cui c’erano anche cosiddetti ‘pesci grossi’). Soltanto che poi, dal momento che la donna sarebbe stata arrestata nuovamente (poichè aveva un carico pendente con mandato di cattura obbligatorio) non se ne fece più nulla.  Si prese anche in esame l’ipotesi di concedere la libertà ad un detenuto gravemente malato, ma che poi venne solo trasferito dal carcere di Trani a quello di Napoli, dove risiedeva un suo medico di fiducia. Leone fu costretto a dimettersi sei mesi prima della scadenza del suo mandato, nel giugno 1978, “a seguito di una furibonda e calunniosa campagna di stampa” (fonte 1, p.117).

I politici che, almeno a livello teorico, non escludevano la possibilità di aprire un dialogo con i brigatisti erano il democristiano Amintore Fanfani (allora presidente del senato) che venne ricevuto dalla famiglia durante i giorni del sequestro); il democristiano Riccardo Misasi (all’epoca presidente della commissione di giustizia) il quale si pronunciò a favore di “un’apertura alle Brigate Rosse in grado di salvare l’ostaggio” (fonte 1, p. 94); il radicale Marco Pannella (il quale –  nello stesso periodo in cui applaudiva ad un’Italia  favorevole al divorzio ed alla legalizzazione dell’aborto- esprimeva solidarietà al cattolico Moro);  il socialista Giuseppe Saragat, che si espose anche tramite dichiarazioni alla stampa; ed infine Bettino Craxi, il quale si mise concretamente in moto per salvare Moro. Questo non significa che gli intenti di quest’ultimo fossero davvero cristiani e/o umanitari. Forse voleva semplicemente indispettire i ‘falchi’ del P.C.I. (che ci tenevano molto a dissociare il loro color rosso da quello delle B.R.) e che in quei giorni rappresentavano i suoi più diretti rivali politici. Moro, nel 1960, aveva favorito l’ascesa del P.S.I. (con conseguente nascita del centro-sinistra) opponendosi al governo del missino Fernando Tambroni. E adesso era invece Berlinguer a salire accanto a lui,  sul carro del vincitore.

Fatto sta, Bettino Craxi (dopo il comunicato numero sette, che conteneva un ultimatum) non ebbe alcuna remora a  muoversi nei circuiti di Potere Operaio, una formazione extra-parlamentare che si era sciolta nel 1973, e nella quale molti esponenti delle B.R. avevano militato prima di diventare terroristi.  Andò quindi in cerca (anche tramite Claudio Signorile, un suo stretto collaboratore di partito) di Lanfranco Pace e Franco Piperno, due storiche personalità in questo ex- movimento.  La trattativa indetta da Craxi era forse il classico ‘segreto di Pulcinella’, poichè sembra strano che nessun politico ne fosse al corrente, anche se Andreotti e Cossiga in primis sostennero di averla appresa soltanto dai giornali come “comuni cittadini” (cit. da fonte 1, p.272). Moro – come si deduce da una lettera non recapitata al suo collaboratore Guerzoni – ne era invece informato, poichè gli chiede :”Che pensa dell’iniziativa di Craxi? Ha uno spessore?”. Quel che è certo è che nessuno interferì, al punto che l’opera di intermediazione – in base alle testimonianze più recenti di Lanfranco Pace- si sarebbe svolta “almeno sette-otto volte” (idem, p. 268) in frequentati luoghi pubblici della capitale, come una nota gelateria, un ristorante in zona archeologica ed “in altri luoghi sparsi per la città” (idem, p. 268). La trattativa in ogni caso fallì, ed il cinque maggio giunse quel terribile nono comunicato: “Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato.” Quel gerundio ebbe un gigantesco impatto mediatico. Quando sarebbe stata eseguita esattamente la sentenza? E poi perchè usare la parola ‘eseguire’, come se le B.R. avessero ricevuto un ordine dall’alto? Questo gerundio avrebbe forse avuto il potere di far iniziare una trattativa davvero ‘ufficiale’, che però non vi fu, perchè giunse quella famosa telefonata a Francesco Tritto, l’assistente universitario di Moro. Sopraffatto dall’emozione (al punto da passare la cornetta del telefono al padre) fu proprio lui a ricevere precise indicazioni  su come la famiglia avrebbe potuto ritrovare il corpo dell’ ‘Onorevole Moro’.

6) Le lettere che Aldo Moro scrisse durante la prigionia si possono considerare autentiche, ovvero frutto del suo vero ed incondizionato pensiero? 

Le lettere di Moro sono state seviziate da ogni tipo di indagine, e con una morbosità formale che distrae dal loro contenuto. Si prese nota della carta a righe oppure a quadretti, del tipo di penna usato, degli sbaffi causati da un liquido (forse una lacrima) sull’inchiostro. Perfino l’andare a capo sembrava esprimere un significato da indagare. Testi che non furono rispettati come all’interno di una teca in un museo, ma che vennero “cerchiati, timbrati e punzonati”  dall’indagine di turno. Lo studioso Miguel Gotor scrive:

“La parola scritta e orale di Moro in quei giorni fu trattata alla stregua di un bene materiale ed il suo autore subì un processo di disumanizzazione che è stato forse l’aspetto più feroce ed insensato in questa storia” (fonte 1, p. 209).

Eppure, questi stessi fogli hanno anche la dignità di un testo letterario, accomunando l’autore ad altri scrittori ‘della prigionia’, come Silvio Pellico ed Oscar Wilde. L’epistolario di Moro è “una testimonianza di tutte le possibilità comunicative che una scrittura disperata, sospesa fra la vita e la morte, è in grado di offrire” (idem, p. 315). In queste lettere si trova un “alternarsi di registri stilistici e toni diversi, dal politico al profetico, dal filosofico al giuridico, dal familiare al testamentario, e ancora dall’invettiva al pacato ragionamento, dall’intima dolcezza allo scatto d’ira.” (idem, p. 315).

I manoscritti autografi di questo epistolario (distribuiti su 419 fogli) sono stati casualmente ritrovati  (il 9 ottobre del 1990)  soltanto in forma di fotocopia – e durante dei lavori di ristrutturazione- nel covo milanese di Via Monte Nevoso. In tutto vennero rinvenute 78 lettere, cinque delle quali ebbero diverse versioni.  I dattiloscritti erano invece già stati ritrovati il 1 ottobre 1978, a seguito di una brillante indagine coordinata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sempre in questo appartamento di via Monte Nevoso.  La battitura a macchina serviva a far circolare il testo delle lettere senza particolari rischi (e con una lettura più agevole) nei vari covi delle B.R. che si trovavano in diverse città italiane.

Lo psichiatra che, assieme ad una psico-grafologa, venne ‘ingaggiato’ dal governo, certificò anche quello che poi l’autopsia smentì, ovvero che Moro era sotto effetto di farmaci (fonte 2, p.184).  La relativa relazione di questo ‘luminare’ -che comparirà fra gli iscritti alla loggia P2 (fonte 2, p. 184)- nella sua relazione parlava, tra l’altro, di un’alterazione della sfera “dei valori” (fonte 1, p. 208). Tutto questo rimbalzava sui giornali, ferendo la sensibilità di un prigioniero che le notizie le leggeva, e che era già emotivamente provato.  Nella lettera al suo partito del 28 aprile, scrive: “E’ vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio.”

E nella lettera recapitata (e non divulgata) al parlamentare Riccardo Misasi, aggiunge:

“Per qualcuno la ragione di dubbio è nella calligrafia incerta, tremolante, con un’oscillante tenuta delle righe. Il rilievo è ridicolo, se non provocatorio. Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito?”.

Tuttora ci si chiede come mai Moro, nel suo epistolario, non si fosse soffermato sulla strage di via Fani, ma vi avesse solo fatto qualche sbrigativo accenno, come ad esempio quando esprime l’esigenza di recuperare le cinque borse che aveva con lui in macchina, oltre a “vari indumenti da viaggio”. Nella lettera al segretario della D.C. Benigno Zaccagnini (pubblicata dai giornali il 5 aprile), riferendosi alla non concessa auto blindata,  scrive: “Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui.” Questa anaffettiva lapidarietà avvalorò la teoria di un Moro ingrato, che tirava acqua al suo mulino, nella speranza di una trattativa. In realtà, non sappiamo fino a che punto le B.R. si intromisero nell’argomento (censurandolo) e fino a che punto fu invece Moro a voler mantenere un riserbo su un argomento che coinvolgeva sia la sua sfera pubblica che privata. Una cosa certa è che Moro non voleva strumentalizzare la strage di Via Fani, quello che invece fece la D.C.  per giustificare la linea dell’intransigenza. Giulio Andreotti affermò: “se gli umili servitori dello Stato vedessero che per liberare un uomo politico si calpestano le leggi e si aprono le prigioni, la reazione sarebbe immediata, con conseguenze gravissime. E che dire delle vedove e degli orfani degli uccisi? (cit. da fonte 1, p.70).

L’opinione pubblica si indignò anche quando, l’ 11 aprile, venne pubblicata la lettera a Paolo Emilio Taviani, recapitata ai giornali  il giorno precedente. Ad un certo punto, Moro riproponeva lo scambio di prigionieri politici, aggiungendo che questa risoluzione avrebbe avuto l’effetto, oltre che di “salvare altre vite umane innocenti” anche quella di “dare umanamente un respiro a dei combattenti, anche se sono al di là della barricata.” Moro, con la parola “combattenti”, si riferiva ai detenuti politici, e non ai sequestratori. Comunque (anche se la lettera venne scritta ben tre volte, per venire incontro alle esigenze propagandistiche delle B.R.) bastò questo per confermare la teoria che Moro fosse affetto dalla cosiddetta “sindrome di Stoccolma”, ovvero fosse ‘innamorato’ dei suoi rapitori.  In realtà Moro, che amava più filosofeggiare che usare slogan, pensava che l’umanità fosse una ed unica e quindi che la colpa di uno, per semplice sillogismo, diventasse la colpa di tutti. Non a caso (quando fu eletto, nel 1955, ministro di grazia e giustizia) divenne il primo politico a visitare i carcerati,  introducendo anche dei corsi di apprendimento per facilitare il loro reinserimento sociale. All’epoca nessuno avrebbe immaginato che quell’uomo compito e signorile, che entrava a Poggioreale con la cravatta annodata, avrebbe a sua volta sperimentato la prigionia. La parola ‘combattenti’ andrebbe quindi intesa non nella sua accezione ideologica, ma nel senso di una quotidiana lotta di sopravvivenza all’interno del carcere. Nella lettera a Taviani Moro parla anche da giurista,  ponendo l’accento sulla lentezza burocratica, sulla pigra macchinosità dei tribunali, su uno Stato che “perde credito e forza”, se è sempre impegnato in un duello processuale defatigante”.

Moro (nella lettera alla D.C. recapitata il 28 aprile) specifica chiaramente che tra lui e le B.R. “non c’è la minima comunanza di vedute”, ma è anche vero che, essendo un disincantato uomo d’esperienza, riteneva che- data la delicata situazione- il male minore fosse venirsi incontro, senza ipocrisie. Nella lettera a Taviani si chiede: “Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona  va, invece che in prigione, in esilio?” (corsivo mio).

Questo passaggio è significativo anche perchè sembrerebbe che Moro, in questa fase, creda che sia stato chiesto il rilascio di un solo detenuto, e non di tredici. Nella lettera del 29 aprile, recapitata al democristiano Flaminio Piccoli, Moro si riferisce invece a quel che era già avvenuto in passato con diversi terroristi palestinesi, che furono graziati e poi mandati all’estero per ragioni di sicurezza:

“Dunque non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere, se fosse continuata la detenzione.”

E infine, nella lettera recapitata al deputato Riccardo Misasi, Moro mette l’accento sulla sua solitudine, che gli conferirebbe una posizione di maggiore vulnerabilità:

“Se i prigionieri in questa vicenda fossero numerosi, e si ponesse per essi un problema di scambio, non v’è dubbio che lo Stato tutelerebbe meglio i propri interessi (a parte i problemi umanitari) accedendo allo scambio.”

In effetti, non vi sarebbero stati, dal lato puramente concreto della questione, grossi ostacoli alla trattativa, anche se si considera il fatto che il 23 aprile l’ambasciatore panamense a Roma, Luis Carlos Zarak, annunciava -con grande spirito umanitario- la disponibilità del proprio governo a ricevere nel suo territorio “le persone che fossero necessarie, se in questo modo si può raggiungere il proposito desiderato di salvare la vita ad Aldo Moro.” (corsivo mio, cit. da fonte 1, p. 176).

Per quale ragione il governo non volle quindi liberare Moro se in passato era già sceso a simili compromessi? Semplice. Perchè, in questo caso, la notizia sarebbe stata di dominio pubblico, con conseguente rischio di perdere consenso popolare. Miguel Gotor scrive: “I brigatisti volevano la liberazione dei loro prigionieri politici, un evento che, come Moro rammentava ai suoi interlocutori, in precedenza era più volte avvenuto con i guerriglieri palestinesi. Segretamente, però.” (corsivo mio).

L’esempio più significativo di quel che era già avvenuto in passato continuo ad illustralo con le parole dello studioso Miguel Gotor: “Il 31 ottobre 1973, nel corso dello guerra dello Yom Kippur fra Egitto ed Israele- scoppiata il 6 ottobre, cessata il 24 ottobre e conclusasi con la firma dell’armistizio l’ 11 novembre successivo- due dei cinque fedayn arrestati ad Ostia il 5 settembre mentre preparavano un attentato all’aeroporto di Fiumicino a un aereo della El Al Israel Airlines, furono scarcerati e fatti espatriare in Libia a bordo del bimotore Argo 16, grazie ad un’operazione del Sid, guidato dal generale Miceli.” (fonte 1, p.109).

Oltre a quello dei detenuti palestinesi, un altro esempio a cui Moro fa cenno (nella lettera a Cossiga del 29 marzo) è quello del “caso Lorenz”. Peter Lorenz era un leader democristiano tedesco sequestrato nel 1975 da un gruppo terroristico denominato ‘Movimento del due giugno’ (Bewegung 2. Juni) e che era stato poi rilasciato in cambio di cinque anarchici (oltre ad un riscatto in denaro).

Dal momento che parlava con cognizione di causa, Moro non capiva perchè non si potesse fare uno ‘strappo’  in una circostanza così eccezionale, al fine di “evitare guai peggiori”. Ed, allo stesso tempo, faceva il miracolo di  trasformare, almeno per qualche settimana, l’Italia che tutti conosciamo in un’entità integerrima, inflessibile, amante delle regole. Una specie di collegio svizzero. Sciascia scrisse: “Ma una insospettata e immane fiamma statolatrica sembra essersi attaccata alla democrazia cristiana e possederla.” (fonte 4 , p.65)

Moro era anche preoccupato per il futuro politico della D.C. In una lettera recapitata il 20 aprile al segretario del partito Benigno Zaccagnini, scrive:

“Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante sulla storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul paese.”

E in quella recapitata il 24 aprile:

“Zaccagnini, sei eletto da Congresso. Nessuno ti può sindacare. La tua parola è decisiva. Non essere incerto, pencolante, acquiescente. Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza.”

Ovviamente, quando Moro scriveva queste schiette frasi, finiva per fare il gioco di coloro che tendevano a delegittimarlo. Tuttavia la lealtà e la sincerità, qualità spoglie di opportunistici orpelli,  valevano per lui assai più delle urne elettorali:

Perchè la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte un milione di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente” (Corsivo mio, lettera a Riccardo Misasi, recapitata e scritta il 30 aprile.)

Su una sua dispensa universitaria del Prof. Aldo Moro, si leggeva: “‘L’assassinio legale è una vergogna inimmaginabile in un regime di democrazia sociale e politica.”(fonte 2, p. 99).  Pensiero assolutamente in linea con la lettera recapitata il 24 aprile a Zaccagnini, e che il giornale democristiano  il Popolo definì al lui “non moralmente ascrivibile”:

“In questo modo si reintroduce la pena di morte che un Paese civile come il nostro ha escluso sin dal Beccaria ed espunto nel dopoguerra dal codice come primo segno di autentica democratizzazione.”

L’ illuminista lombardo Cesare Beccaria, nella sua opera del 1764 (Dei delitti e delle pene), si schierava contro la condanna a morte e la tortura, auspicando la rieducazione dei colpevoli. Analogamente Moro pensava che il diritto alla vita (incluso quello delle persone più indegne) dovesse prevalere su qualsiasi altra considerazione. Sempre Sciascia, scrive: “Lasciar uccidere un uomo per inseguire (o meglio, per nascondersi) dietro un astratto principio della ragion di stato non è morale a sua volta” (fonte 4, p.65).

Moro si era laureato in legge nel 1938, ed il giorno della strage di via Fani aveva con sè anche alcune tesi che sarebbero state discusse dai suoi laureandi nel pomeriggio. Indirizzò tre lettere anche ad una sua studentessa (da lei mai ricevute) che viene menzionata anche nella missiva del 27 marzo alla moglie:

“Se puoi, nella mia rubrichetta verde, c’è il numero di M.L. Familiari, mia allieva. Ti prego di telefonarle di sera per un saluto a lei ed agli amici Mimmo, Matteo, Manfredi e Gianni, che mi accompagnano a Messa.”

Moro riteneva questa ragazza affidabile e coscienziosa al punto da chiederle “qualche collaborazione” nel recapito di alcune lettere. E’ assolutamente naturale che Moro si sia ricordato dei suoi studenti durante la prigionia, anche se in quegli ‘anni di piombo’ non era molto semplice comunicare con le nuove generazioni. Diversi brigatisti nacquero in seno alle aule universitarie, ma sarebbe sbagliato identificarli soltanto con delle teste calde, ribelli, ribollenti di estreme ideologie. Anche un tipo mite, ordinario, studente modello, di buona famiglia borghese poteva trasformarsi in un brigatista, e continuare a condurre un’esistenza apparentemente ‘normale’. Moro avrà sicuramente tentato di persuadere i suoi giovani rapitori a non aggravare ulteriormente la loro situazione, e non solo da un punto di vista giuridico. Del resto, non tutti i sicari furono unanimi nella loro ultima decisione. Anche loro si dividevano, come i politici ed i comuni cittadini,  in ‘falchi’ e ‘colombe’. Colombe con le piume già macchiate di sangue.

Durante la prigionia Moro resta ben cosciente del suo ruolo politico, tanto che nella lettera alla D.C. ribadisce il suo “potere di convocare per data conveniente ed urgente il consiglio nazionale”. Tuttavia, la sua immagine pubblica si alterna con quella più intima e squisitamente personale, raggiungendo il suo apice nelle parole rivolte al nipotino Luca, figlio della primogenita Maria Fida. In questa lettera non recapitata, scritta a caratteri appositamente grandi e tondeggianti, e frutto di un momento di malinconica rassegnazione, Moro cerca di farsi ricordare dal nipotino quando sarà in grado di leggere. Si descrive come “il nonno del casco, il nonno degli scacchi, il nonno dei pompieri della Spagna, del vestito del torero, dei tamburelli.” Ed aggiunge:  “E’ il nonno, forse ti ricordi, che ti portava in braccio come il SS. Sacramento, che ti faceva fare la pipì all’ora giusta, che tentava di metterti apposto le coperte e poi ti addormentava con un lungo sorriso, sul quale piaceva ritornare. Il nonno che ti metteva la vestaglietta la mattina, ti dava la pizza, ti faceva mangiare sulle ginocchia.” E poi, in un’altra lettera:  “Tu non mi vedrai, forse, ma io ti seguirò nei tuoi saltelli con la palla, nella tua corsa al cuscinone nel guizzare nell’acqua, nel tirare la corda al motore. Io sarò là e ti accarezzerò, come sempre ti ho accarezzato, dolcemente il visino e le mani.”

Nell’epistolario di Moro ricorre, come un leitmotiv, l’urgenza di ricongiungersi ai suoi cari, che hanno bisogno della sua presenza e vicinanza. In una lettera rivolta ai presidenti delle Camere (recapitata e scritta intorno 26 aprile), chiese addirittura di poter essere trasferito in carcere, fra i detenuti comuni, per poter avere, oltre a diversi altri vantaggi (che i rapitori non potevano assicurargli senza esporsi troppo) anche “un contatto, almeno saltuario, con la famiglia “. Alla figlia Anna, che era in attesa di un bambino, scriveva: “A qualsiasi età i figli sono i nostri piccoli”. E al figlio Giovanni, si raccomanda: “tu studia, prega, opera per il bene, aiuta la famiglia ed il piccolo Luca”. E ad un suo collaboratore, Sereno Freato, chiede di  “guidare, consigliare, aiutare questa famiglia”.

Questo ricorrente senso di responsabilità familiare ha fatto passare l’immagine del tipico meridionale – salentino e tradizionalista- che ci teneva di più a ritrovare i figli già grandi ed indipendenti, oppure a ‘fare il nonno’, piuttosto che ad essere disposto, stoicamente, a sacrificarsi per la ragion di Stato. Proprio lui, che quando era ministro degli esteri (dal 1969 al 1974) aveva svolto ben centodiciannove viaggi, ora veniva etichettato come un provinciale un po’ arretrato ed ottuso.  In realtà la sua preoccupazione era psicologicamente plausibile, soprattutto in tempi in cui i rapimenti di bambini riempivano le pagine dei giornali. Ad una lettera rivolta alla figlia ed al genero scrive:

“Mi consola pensare che, prendendo io quel che sta per arrivare, lo scanso agli altri, lo scanso a Luca e Luca potrà star bene. E questo è l’essenziale.”

La paura che gli elementi più fragili della sua famiglia potessero divenire a loro volta oggetto di sequestro emergerebbe inoltre nella lettera recapitata alla moglie (e pubblicata dal giornalista Mino Pecorelli) il 7 aprile, dove Moro reagisce ad un articolo dell’Osservatore Romano. Soltanto una grande preoccupazione per l’incolumità dei suoi cari potrebbe spiegare parole roventi come queste:

“La Santa Sede” – in questo caso rappresentata dal vice-direttore del giornale- “smentisce tutta la sua tradizione umanitaria e condanna oggi me, domani donne e bambini, a cadere vittime per non consentire il ricatto. E’ una cosa orribile, indegna della Santa Sede.” (corsivo mio, fonte 1, p. 32).

Moro aveva poco a che fare con i classici ‘topi di sacrestia’ della D.C., e simbolo della sua apertura mentale resta una foto accanto a Pier Paolo Pasolini, durante la prima proiezione del film ‘Mamma Roma’. Erano due personalità completamente opposte (seppur accomunate da un tragico destino) e l’unico privilegio che Pasolini gli concesse fu quello di ritenerlo  ‘il meno implicato di tutti” quando insinuava connivenze fra la sua ala politica e gli stragisti neo-fascisti di Piazza Fontana, ovvero coloro che, il 12 dicembre 1969 un attentato dinamitardo in una sede milanese della Banca dell’Agricoltura, causarono 17 morti ed 88 feriti. In questo tragico frangente sarebbe stato proprio Moro a far riprendere delle indagini che erano state rallentate a causa di pressioni politiche.

Moro compariva spesso sulle riviste di gossip, come una celebrity.  Si parlava dei film che aveva visto (incluso Bertolucci, poichè non disdegnava nessuna forma d’arte), della musica che ascoltava (da Richard Wagner fino ad Adriano Celentano). La rivista Gente nel 1970 lo  immortalò in maglietta e calzoncini, al di fuori degli impegni di governo. Moro non provava fastidio a condividere i suoi momenti più privati coi lettori, come quando uscì un servizio in occasione del battesimo del nipotino, o mentre era col piccolo in montagna col passeggino. Proprio lui, che non si era mai sottratto agli scatti dei fotografi, ora compariva su quelle due polaroid  (datate 18 marzo e del 20 aprile) con l’aria avvilita ed umiliata, con alle spalle il drappo rosso delle B.R., ed esibendo un quotidiano come prova della sua esistenza in vita.

Quando Moro venne ritrovato in quella posa accovacciata, sotto una triste coperta, nel portabagagli di un’ auto, si avvertì il devastante effetto del suo esilio, che lo aveva gradualmente spogliato della sua dignità sia istituzionale che esistenziale:

“Acciambellato in quella sconcia stiva / crivellato da quei colpi,/ è lui, il capo dei cinque governi,/ punto fisso o stratega di almeno dieci altri,/ la mente fina, il maestro / sottile / di metodica pazienza, esempio / vero di essa / anche spiritualmente: lui- / come negarlo? – quell’abbiosciato / sacco di già oscura carne/<…>.” (cit. da Mario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985)

Moro mosse mari e monti con le sue lettere, attivando tutti i canali possibili: collaboratori, diplomatici, ecclesiastici, familiari, legali, politici, organizzazioni umanitarie. Non gettò la spugna fino alla fine, finchè  venne a soccorrerlo la sua spiritualità, quei valori cristiani di cui era sempre stato portavoce e che non poteva abbandonare proprio adesso, cedendo alla disperazione:

“Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli.” (Lettera alla D.C. del 28 aprile)

Gli erano  rimasti, nella sua dignitosa rassegnazione, quegli effetti personali che verranno poi consegnati alla famiglia (un rosario, una catenina con la Madonna, la fede nuziale) e non mancò mai, in fondo al tunnel, la luce di una speranza anche ultraterrena. Nella lettera del 5 maggio recapitata alla moglie Eleonora (che chiamava ‘Noretta’) scrive:  “Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda ed incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e a tutti un caldissimo abbraccio, pegno di un amore eterno. Vorrei capire coi miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo.”

Fonti principali:

1) Aldo Moro Lettere dalla prigionia. A cura di Miguel Gotor. Torino: Edizioni Einaudi, 2018, p. 1-383

2) Marco Damilano   Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica italiana.  Milano: Feltrinelli 2018 (edizione speciale per La Repubblica/ L’Espresso) p. 1- 268.

3)Giuseppe Fioroni / Maria Antonietta Calabrò   Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta. Edizioni Lindau, Torino: 2019 (prima edizione 2018), p. 1-355

4) Leonardo Sciascia L’affaire Moro. Milano: Ed. Adelphi, 1994, p. 1-197

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