Ci vogliono “5 Broken Cameras” per raccontare l’occupazione israeliana

Pubblicato il 22 Feb 2013 - 1:18am di Irene Masala

broken cameras

Broken Cameras: una nuova forma di resistenza

Nella lotta non violenta una telecamera diventa la più grande e offensiva arma a disposizione. L’obiettivo cessa di essere un mero tramite tra chi riprende e ciò che viene ripreso. L’occhio della telecamera diventa l’occhio del mondo. E di occhi,  Emad Burnat, ne ha dovuti utilizzare ben cinque per filmare la realtà dell’occupazione israeliana in Cisgiordania dal 2005 al 2010. Il documentario nasce dalla voglia del cameramen dilettante palestinese di riprendere la nascita di Gibreel, ultimogenito di Emad, contemporanea all’inizio delle manifestazioni pacifiste del venerdì nel villaggio di Bil’in. Questa nuova modalità di resistenza, adottata dal popolo palestinese, nasce come reazione spontanea alla confisca del territorio per fare spazio alla costruzione del muro si separazione, ennesimo escamotage del governo israeliano per sottrarre le terre agli agricoltori e rendere sempre più difficile la sopravvivenza in Cisgiordania.

Realizzato in collaborazione col registra israeliano Guy Davidi, il tempo del documentario è scandito dalla rottura delle telecamere: una è stata messa fuori uso dopo un incidente avvenuto a ridosso del muro, tre sono state distrutte dai soldati, una delle quali ha salvato la vita al regista, e l’ultima è stata frantumata da un ebreo ortodosso, abitante della colonia vicina a Bil’in.  In realtà, l’attrezzatura da ripresa è stata danneggiata e riparata più volte nel corso degli anni ma il film sottolinea solo i momenti in cui questa viene messa completamente fuori uso. Il procedere della storia vede intrecciarsi scorci di vita quotidiana all’interno dei territori palestinesi, dall’irruzione dei soldati delle Forze di Difesa Israeliane all’interno delle case palestinesi nel cuore della notte, alla sproporzionata reazione dell’esercito durante le manifestazioni di protesta, spesso caratterizzate dalla presenza di internazionali travestititi da clown e giocolieri, armati di sorriso e bolle di sapone. Il vero filo conduttore, però, è la crescita di Gibreel, ed il suo cambiamento man mano che prende coscienza della situazione politica del suo villaggio e delle ingiustizie che ogni giorno si consumano sotto i suoi occhi da bambino.

Nella semplicità delle riprese, che testimoniano una realtà da molti ignorata, 5 broken cameras riesce ad oltrepassare la barriera dell’indifferenza, portando al di fuori del muro la realtà dell’occupazione, sconosciuta alla maggior parte degli stessi israeliani, dimostrando il fallimento dei mezzi di comunicazione locali e non solo. La realizzazione del progetto è stata resa possibile grazie all’aiuto dei fondi internazionali e, in parte, anche del governo israeliano, fatto che ha suscitato non poche polemiche. Nonostante  ciò, e a dispetto del successo e dei riconoscimenti internazionali ottenuti dal film, il ministero dell’Educazione, con potere decisionale su quali materiali possano entrare nelle scuole israeliane, ha posto il veto sul documentario, escludendolo dal programma educativo e culturale. In risposta a questa censura, Guy Davidi ha iniziato una campagna di diffusione tra i giovani israeliani, ritenendo necessario creare un certo tipo di consapevolezza all’interno dell’opinione pubblica del suo paese, già dall’adolescenza, prima che entrino a far parte dell’esercito. Si spera che una maggiore risonanza internazionale sul film, ma sopratutto sulla taciuta e dimenticata situazione a Gaza e in Cisgiordania, possa arrivare grazie alla candidatura ai prossimi Oscar, a cui partecipa per la sezione documentari, portando davanti agli occhi del mondo quale sia il tipo di democrazia instaurato dallo stato di Israele. “Ecco perché ogni israeliano dovrebbe vederlo, e dovrebbe far vergognare ogni israeliano dotato di un minimo di buon senso” ha scritto Gideon Levy, giornalista del quotidiano Ha’aretz. Il film di Burnat e Davidi, entrando di diritto a far parte delle forme di resistenza non violenta, ha infatti tutto il potenziale per ridestare le coscienze della comunità internazionale  e anche quelle degli israeliani, spesso ignari della violenza perpetuata a loro nome.

Info sull'Autore

Laureata in Scienze Politiche e Giornalismo ed Editoria, da anni si occupa di geopolitica e relazioni internazionali, con particolare interesse per il Medio Oriente e il conflitto arabo-israeliano. Due grandi passioni, scrivere e viaggiare, l'hanno portata a trascorrere gli ultimi sei anni tra Roma, Valencia e Israele/Palestina. Ha inoltre frequentato il Master in Giornalismo Internazionale organizzato dall'IGS (Institute for Global Studies) e dallo Stato Maggiore della Difesa, nell'ambito del quale ha avuto modo di trascorrere due settimane come giornalista embedded nelle basi Unifil in Libano.

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