CO2: la mano dell’uomo sulla crisi climatica

Pubblicato il 3 Apr 2013 - 9:12pm di Redazione

 La produzione di CO2 è l’aspetto cruciale: la lotta ai cambiamenti climatici è un’urgenza indifferibile

Co2Dalla spinta di Kyoto, passi avanti sono stati compiuti sul versante del trasferimento di tecnologie innovative ai Paesi meno sviluppati. Questo processo è avvenuto attraverso diverse conferenze delle parti: l’Aia (2000), Marrakech. (2001), Buenos Aires (2004), Montreal (2005), Bonn (2006).

Nelle citate sedi, via via, sono andati maturando maggiore disponibilità e buona volontà cooperativa anche da parte della Cina, dell’India e dei Paesi del G77 a tagliare le emissioni, purché venga loro assicurato il sostegno finanziario volto allo sviluppo delle energie rinnovabili. Alla Conferenza di Cancun (2010) l’impegno a seguire tale condotta è stato rafforzato. Inoltre, si è affermata l’idea di ridurre le emissioni ben oltre quanto venne stabilito a Kyoto. Il documento parlava del contenimento delle emissioni tra il 25% e il 40% entro il 2020, proprio per scongiurare che il riscaldamento sfiori il tetto massimo dei 2° C, sperando di mettere un punto fermo all’intera e preoccupante questione.

Significativo è il fatto che sono stati creati due organi il Technology Executive Commitee e il Climate Technology Centre and Network al fine di sostenere il trasferimento di know-how. L’impegno a fronte di questa “concessione” per i Paesi beneficiati sarà quello di dotarsi di piani finalizzati alle riduzione delle emissioni di CO2. Un pericolo incombe: le variazioni climatiche potrebbero risultare irreversibili. Pertanto è indispensabile risolvere il problema dell’effetto serra.

La produzione di CO2 è l’aspetto cruciale. Nel corso degli anni si sono tentate diverse soluzioni per arginare l’entrata in atmosfera dell’anidride carbonica. Tempo addietro, una linea di ricerca puntava sull’assorbimento della CO2 da parte delle piante, creando dei cosiddetti “pozzi di carbonio”. Talune case automobilistiche, come la Peugeot, investirono in Amazzonia per accrescere la superficie boschiva. La Toyota, addirittura, mise in campo una ricerca indirizzata a modificare geneticamente gli alberi in modo che assorbissero quantitativi maggiori di CO2. La giapponese RITE (Research Ins. of Innovative Technology for the Earth) operava su piante modificate in grado di sopportare la scarsezza d’acqua e, quindi, di far rinverdire i deserti. Altri studi furono orientati nell’indurre la proliferazione delle alghe e del plancton capaci d’inglobare CO2 in grandi quantità per mezzo della inseminazione dell’oceano Australe con limatura di ferro. In proposito, però, gli oceanologi misero in guardia dall’attuare il suddetto sistema. Innanzitutto per insufficienza di prove sulla validità che l’anidride carbonica restasse immagazzinata nelle alghe in modo durevole; in secondo luogo, per le eventuali e sconosciute conseguenze difficilmente controllabili.

L’oceanologo Stephane Blain (Università di Best) avanzò l’ipotesi dell’insorgere di alterazioni con perdita di biodiversità provocate dagli esperimenti. A sostegno del possibile profilarsi di rischi collaterali, Paul Johnston, responsabile di Greenpeace International d’Exter (Gb), afferma che sono esperimenti parziali che trascurano la complessa composizione degli oceani. Lo stesso professor Ulf Riebesell dell’Leibniz Institute di Kiel (Germania) ritiene che l’aumento di concentrazione negli oceani influenza la biodiversità, danneggiandola. Soluzioni ingegneristiche, che partivano dall’idea d’affrancarsi dall’anidride carbonica, pensate e sperimentate negli anni ’80 del novecento, vennero dirottate sulla opportunità di sottrarre la CO2, azione detta di “geosequestrazione”. Il processo fu accolto dalle compagnie petrolifere. Il sequestro e la cattura del carbonio legata all’estrazione petrolifera, nei siti di Weyburn (Canada), In Salah (Algeria) e Sleipner (Norvegia), ad esempio, è appena di 1 milione di tonnellate l’anno. Davvero poca cosa se si considera che la CO2 liberata dall’attività umana ammonta a 27 miliardi di tonnellate, ovvero pari a 50mila tonnellate al minuto. Ora, si è convenuto che di tutte le modalità di cattura dell’anidride carbonica la principale resta la fotosintesi clorofilliana. Un processo naturale che andrebbe, secondo il Protocollo di Kyoto, incrementato sia con la preservazione delle foreste sia col destinare nuovi territori alla piantumazione e all’agricoltura sostenibile.

In buona sostanza, le soluzioni bio-ingegneristiche si sono rivelate inefficaci e limitate o comunque assai dispendiose economicamente. L’unica vera offensiva contro le emissioni di gas inquinanti è il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili (solare, eolico, idroeolico, geotermico). Non solo. All’impiego di quest’ultime andrebbe affiancato una vera e propria disciplina comportamentale sul piano della sostenibilità. Ovverossia, ridimensionare i consumi energetici. In che modo? Bene. Gli ambientalisti ricorrono all’introduzione del fattore “R”, cioè riciclare, ridurre, riutilizzare.  Soltanto modificando seriamente i nostri stili di vita è possibile incidere sulla lotta all’inquinamento, così da stabilizzare le concentrazioni di gas serra in atmosfera e da limitare le ingerenze antropogeniche sul clima.


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