Bobbio, Karl Marx e la società aperta

Pubblicato il 20 Gen 2015 - 10:00am di Redazione

Nella recente raccolta di testi inediti di Norberto Bobbio Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile (2014, Donzelli) il contributo che apre il volume è intitolato Marxismo e liberalsocialismo, nel quale l’intellettuale torinese ragiona sul marxismo classico, motivandone il suo superamento teorico e le ragioni sostanziali del suo personale approdo al socialismo liberale.

Bobbio segnala tre punti critici del marxismo: l’insanabile economicismo, il totalitarismo e l’utopismo della teoria della fine dello Stato. In fondo, critiche piuttosto elementari. Ma è il terzo rilievo ad essere il più interessante e controverso. Il bersaglio diretto della critica è la teoria marxiana dell’estinzione dello Stato al seguito della dittatura del proletariato: lo Stato come strumento del dominio della classe dominante perde la sua ragion d’essere nella società socialista, ossia nella società senza classi.

Bobbio scorge, a ragion veduta, l’impossibilità pratica di ogni superamento, in senso socialista, della forma statuale. Legittimamente ne denuncia l’utopismo di fondo, in piena analogia con la teoria dell’estinzione dello Stato di Smith, secondo il sogno liberista della società di mercato senza ogni controllo esterno al mercato stesso. Tuttavia Bobbio non prende di mira esclusivamente la previsione marxiana sul destino dello Stato, ma anche la sua premessa teorica fondamentale: la società senza classi.

Qui appare il punto critico del marxismo: una società senza Stato? Ma questo è l’elemento ideologico che salta fuori, perché questa società senza classi e senza Stato è un’impossibilità. Le classi […] non potranno mai essere abolite e quindi non potrà mai essere abolito neppure lo Stato. 

 La domanda è lecita: perché il filosofo torinese sovrappone la condivisibile critica dell’estinzione marxiana dello Stato a quella verso l’idea della società senza classi? Bobbio non solo segnala l’impossibilità di ogni progetto anticlassista, ma separa nettamente il piano della libertà da quello della società senza classi.

La meta fondamentale non è la società senza classi: il problema dell’uomo è uno solo, il problema della libertà.

Ed ancora:

Questo è il nostro socialismo: il socialismo dei lavoratori che lottano per la libertà, non quello dei socialisti marxisti (quello di Marx, n.d.a) che lottano per la società senza classi, cioè un assurdo. 

L’assurdo, secondo Bobbio, sarebbe pensare una società senza classi e al contempo una società libera, cioè di individui liberi. Ma si tratta di una gigantesca confusione teorica, oltre che di un palese fraintendimento di ciò che Marx intendeva con il termine “classe”. Sembrerebbe che Bobbio confondi il sostantivo “classe” con “ceto”, se per classe intendiamo un gruppo sociale cristallizzato, tipico delle società chiuse.

Nei Manoscritti economico-filosofici, opera peraltro curata e tradotta dallo stesso Bobbio per l’edizione Einaudi del 1968, nella sezione Proprietà privata e comunismo, Marx accusa il capitalismo (e persino il comunismo rozzo) di essere una società del livellamento, parlando di “lavoro livellato, suddiviso, e quindi non libero”, dove l’accento cade proprio su “non libero”. Il lavoro estraniato non è tale solamente nella misura in cui il suo prodotto è alienato dall’uomo che lo crea, ma è tale perché costretto, esso non appartiene ad una dimensione della libera scelta. L’operaio, per non morire di fame, deve, di necessità, vendere la propria forza lavoro al capitalista: egli, tutto fuorché autonomo, dipende interamente dai capricci del capitale, dalle oscillazioni del mercato, ecc [cfr. sezione Salario nei Manoscritti]. La classe perciò, non è solo quel gruppo sociale di individui che intrattengono il medesimo rapporto con i mezzi di produzione, ma anche quel ceto sclerotizzato destinato o a restringersi (borghesia) o ad ampliarsi (proletariato). L’individuo sociale, quello configurato da Marx, è quella persona (per-sé) che è libera concretamente di sviluppare le proprie capacità, in maniera onnilaterale, le cui possibilità sono massimizzate senza entrare in contraddizione con le possibilità altrui.

 I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto ed in punti isolati. L’indipendenza personale (fondata sulla dipendenza materiale) è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo. (dai Grundrisse, La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I, p. 99)

La storica tensione evocata da Marx è quella della dipendenza materiale (quella dal mercato) rispetto a quella personale (tra signoria e servitù), succedute poi dal terzo stadio, quello socialistico, nel quale viene spezzata ogni dipendenza, che è già sempre individuale. L’onnilateralità si dischiude nel bisogno e nelle universali capacità, nel libero sviluppo, indipendente e dunque ormai al di fuori del quadro classistico. Classe in Marx fa rima con clausura, il luogo sociale massimo dello sfruttamento e della costrizione. Bobbio vorrebbe il socialismo e insieme abbandonare il paradigma del superamento della società di classe: ma si tratta di una contraddizione logica.

Tutto il socialismo successivo alla morte di Marx – specialmente quello europeo, al quale Bobbio è senz’altro più vicino – ha rivendicato e in gran parte ottenuto non semplicemente misure di redistribuzione del redditto atte a garantire condizioni di vita e di lavoro più dignitose (seppur all’interno dell’inalterato contesto di classe), ma anche politiche di estensione delle opportunità sociali minime, o meglio, di quegli istituti che ne favoriscono lo sviluppo: accesso alla scolarizzazione, alla formazione professionale, alla pari condizione di genere. (Sul tema è prezioso il volume di Domenico Losurdo La lotta di classe, Roma-Bari, 2013).

Le diffuse richieste di diritti e opportunità erano sì da un lato accese dall’appello alla libertà, cui Bobbio fa a buona ragione riferimento, ma specialmente dall’orizzonte storico-politico, ideologicamente più accessibile, della società senza classi.

Ma egli nel testo parla del progresso della storia umana come del “passaggio graduale dalla società chiusa alla società aperta“, aggiungendo risolutamente che quest’ultima è nel socialismo “lo scopo da raggiungere“. Bobbio non pensa a società aperta e società senza classi come sinonimi, ma cade nello stesso grossolano equivoco popperiano di un Marx pensatore della società chiusa. Un equivoco oggi diventato insopportabile se si vuole realmente ripensare ad un socialismo della libertà, che non può fare a meno del suo padre tedesco.

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