Franz Kafka o dello smarrimento dell’uomo

Pubblicato il 28 Lug 2013 - 4:00pm di Redazione

Ricordiamo Franz Kafka in occasione del 130° anniversario della sua nascita

Franz Kafka

Quest’anno è ricorso il 130°mo anniversario della nascita di Franz Kafka. Lo scrittore era nato a Praga il 3 luglio 1883 da una famiglia ebraica askenazita (discendenti di comunità ebraiche medievali di Ashkenaz, valle del Reno). Nella casa dell’Altstadter Ring, all’angolo tra via Kaprova e via Maislova al numero 5, vide la luce uno dei più grandi scrittori di lingua tedesca. All’amico Max Brod confidò: «Io non vivrò mai l’età virile». Morì a quarantuno anni di tubercolosi nel sanatorio di Kierling, vicino Vienna, il 3 giugno 1924. Da allora, è sepolto nel cimitero ebraico di Praga Staschnitz.

Parlare oggi dell’attualità di Franz Kafka non è compito semplice. Non perché sia la sua opera l’origine della difficoltà o la sua vita inattuale, piuttosto perché resta difficile comprendere dove oggi sia annidata la vera inquietudine interiore, quella che viene o non viene addomesticata dalle droghe qualunque esse siano (non necessariamente di natura allucinogena o stupefacente) o quelle che travalicano la ragione o la conservazione di sé. L’inquietudine di Franz Kafka era fatta di riflessione, di lettura del più profondo della caverna dell’inconscio: una vera e propria interpretazione delle voci provenienti dall’intimo, dei segni inscritti sulle tavole del tempo: passato, presente e futuro (la suddivisione serve solo a catalogare il tempo secondo il nostro più avvicinabile criterio di visualizzazione). La difficoltà forse maggiore di comparare l’inquietudine dello scrittore con quella dell’uomo contemporaneo risiede nel fatto che non esistono più inquietudini circoscrivibili alla persona in quanto individuo, ma al contrario alla moltitudine: all’inquietudine di massa. Parlare d’inquietudine di massa è una definizione troppo generalizzata? È probabile. Ridurre tuttavia l’attualità di Franz Kafka alla sola manifestazione dell’inadattabilità del proprio io al tempo che gli appartiene, crediamo sia riduttivo.

Allora occorre cercare altrove la corrispondenza della complessità della sua figura con quella meno complessa (per certi versi, meno), ma più difficilmente circoscrivibile, proprio perché di massa, delle generazioni della fine del XX e di questo tratto del XXI secolo. Presumibilmente, per riprendere il discorso sull’inquietudine, la sua è un’introversione di “principio”, mentre la nostra di “fine”. Che cosa s’intende per fine? Un tempo avverso, infelice. Un tempo del nulla e della precarietà. Il tempo nel significato di “era”, di stagione storica (ovvio) ormai quasi alla deriva, che va sempre più e pericolosamente distaccandosi da ciò che l’ha generata. In ogni caso, il “principio” di Franz Kafka è l’individuazione cruda, come scrive Remo Cantoni, «Del negativo, dell’assurdo, del nulla, di tutto ciò insomma che è per l’uomo barriera che ostacola il cammino e delude la speranza mortificando la ragione».

Ecco che il punto di congiunzione esiste: l’incertezza del vivere, la permanente incompiutezza dell’esistere, l’instabilità del quotidiano, la precarietà degli orizzonti. E ogni tentativo di liberarsi da questa insopportabile sensazione di condanna fallisce miseramente. Oggi più che mai la ricerca della salvezza è l’atto costante dell’uomo contemporaneo. E tanto più si aggrava quanto più mancheranno appigli sicuri. E se ciò accade, molti sconfineranno incautamente in “altri territori” aridi, insonorizzati, privi di luce, desolati nell’illusione di placare il tormento dell’insoddisfazione.

In Franz Kafka la salvezza passa attraverso la letteratura. Unico “espediente” per sfuggire a tale destino è l’immedesimazione totale in essa per diventare lui stesso letteratura. Il 21 luglio 1913 nel diario annota: «Odio tutto ciò che non riguarda la letteratura. Mi annoio a far conversazione […], mi annoio a far visite, le gioie e i dolori dei miei parenti mi annoiano fino in fondo all’anima». Odiava tutto ciò che non si riferiva alla letteratura. Esattamente un mese dopo, il 21 agosto, conferma: «Siccome non sono altro che letteratura e non posso né voglio essere altro…».

Nella letteratura confluiva tutto se stesso. Essa era l’insieme dell’infelicità, della menzogna, dell’inettitudine, della solitudine, dell’incoerenza, dell’angoscia, della gioia, della speranza, della preghiera, della fantasia, del sacro. In buona sostanza, viveva scrivendo. La sua vocazione lo fa esistere. Lo tiene in vita. Lo salva. È la sua droga. Infatti, scrive: «Intrepido, nudo, potente, sorprendente come lo sono, di solito, soltanto quando scrivo». La vita interiore dello scrittore praghese è la vita interiore del mondo. Lo afferma anche Maurice Blanchot nel tentare di risolvere l’enigma dello scrittore e dell’uomo: «Kafka ha cercato con tutte le sue forze di essere scrittore. Si è disperato tutte le volte che ha creduto che gli si impedisse di diventarlo».

Ora dov’è che l’uomo può rintracciare la soddisfazione del vivere, l’intesa col proprio tempo, la sostanza certa della felicità? A Franz Kafka la letteratura era il dove del ritiro, l’oasi per il beduino, la madre affettuosa, la patria per l’emigrante, la stazione di posta per i viaggiatori di un tempo. L’uomo contemporaneo come la risolve la propria esistenza? La domanda è tremenda. Tanto più la risposta che è assente. Ma è davvero assente? Eludere la domanda potrebbe rappresentare un rimedio, presupponendo pregiudizialmente che la risposta è irrintracciabile? Se la domanda però è la ferita del mondo, non considerarla o trascurarla significano morte certa. Lenta ma certa. Allora conviene, forse, “assicurarsi” alla ragione, spingersi dentro di essa e sostare a riflettere alla stregua dell’arciere davanti al bersaglio prima di scoccare la freccia, o di un ambasciatore che si appresta a dare una risposta risolutiva, o del penitente prima di accostarsi al confessionale. Come l’aquila che con le sue volute concentriche “sosta” in aria in attesa di individuare la preda. Come sostava Franz Kafka quando si distendeva sul divano nella penombra della sua piccola camera e sbirciava pigramente l’orologio.

«Aspettare» commenta Pietro Citati, «dava uno scopo alla sua vita che altrimenti gli sembrava così indeterminata».

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