Democrazia: se la folla va al potere

Pubblicato il 27 Apr 2013 - 4:58am di Redazione

Democrazia e Popolo. Un rapporto difficile

democraziaC’è chi ha definito la democrazia un pessimo regime (e con regime si intende l’accezione medievale del termine, ovvero “forma di governo”), ma il migliore che abbiamo. Non è una frase di Grillo – che, benché abbia recentemente dichiarato la morte della democrazia, stravede per la rappresentanza diretta – ma di Churchill.

Nell’età attuale, che Salvatore Veca ha chiamato “età della solitudine normativa della democrazia”, la parola “democrazia” ha trionfato in Occidente e ha ormai assunto una connotazione universalmente positiva, tanto che oggi più nessuno si vergogna di dirsi “democratico”. E, anche se parlare di democrazia è ancora difficile, movimenti di rivolta ispirati a principi democratici si sono avuti pure in luoghi che di Occidente hanno poco o nulla, inaugurando così la cosiddetta Primavera araba. Azzardarsi oggi a definire la democrazia come un pessimo regime apparirebbe quasi come un peccato di hýbris. Ma, pensandoci bene, quella frase non è poi così inspiegabile se si pensa che, già a partire dall’antichità greca in cui è nata, la democrazia, nella millenaria discussione intorno alle forme di governo, è sempre uscita perdente sia in ambito politico che filosofico.

Si potrebbe cominciare dal III libro delle Storie di Erodoto, che comprende il più antico testo greco sull’argomento: un dibattito persiano tra Otane, Megabizio e Dario sulla migliore forma di governo da istituire in Persia. In difesa della democrazia (isonomia) interviene Otane, prontamente criticato da Megabizio, contrario al potere del popolo “poiché non v’è nulla di più stolto e di più insolente duna folla buona a nulla”.

Un anonimo pamphlet antidemocratico, tramandatoci nel corpus delle opere di Senofonte probabilmente per l’analogia con la Costituzione degli Spartani, è la Costituzione degli Ateniesi (da non confondersi con l’omonimo scritto attribuito ad Aristotele). In questo breve opuscolo, che Luciano Canfora attribuisce a Crizia, l’oligarca ateniese si oppone alla democrazia perché permette a tutti di esprimersi (anche a chi non ha competenze per farlo), identificando i migliori come i nemici della democrazia “giacché nei migliori cè il minimo di sfrenatezza e di ingiustizia, e il massimo di inclinazione al bene”.

PlatoneCon Platone, il primo grande critico della democrazia, ci troviamo nel solco di posizioni esplicitamente aristocratiche, fondate sulla convinzione che gli uomini non siano tutti eguali per natura e che non abbiano gli stessi diritti e le stesse opportunità; considerazioni che non lasciano alcuno spazio alla democrazia sia come regime politico sia come sistema socio-culturale, e che gli hanno procurato la feroce accusa di Popper. Nel libro VIII della Repubblica la critica alla democrazia del filosofo greco, che si trova a vivere quasi tutta la sua esistenza sotto governi democratici, è radicale: attaccata senza mezzi termini soprattutto dopo la vicenda di Socrate, questa forma di governo non avrà mai in Platone momenti di riscatto – e a nulla sono valsi i tentativi fatti in questi anni per cercare di spiegare il severo giudizio platonico, ora sostenendo che egli prenderebbe di mira una democrazia diversa dalla nostra, ora dicendo che in opere tarde come il Politico e Le Leggi ci sarebbe addirittura una revisione.

Ma come si origina la democrazia? Per Platone la democrazia nasce dall’oligarchia nel momento in cui, con l’aumentare del divario tra ricchi e poveri, si giunge ad una sorta di “rivoluzione” che porta al “potere” la maggioranza del popolo povero. Ne deriva un regime poco definito, dai ruoli confusi, che comprende “numerosissimi modelli di costituzioni e di indoli umane”, dalla assoluta libertà, che dà eguaglianza anche a chi eguale non è, in cui non vi sono regole, obblighi e doveri, tutto è permesso e ognuno può dire ciò che vuole.

Per bocca di Socrate, Platone parla – ironicamente – di una costituzione “anarchica e variopinta”, in cui protagoniste sono le folle rumoreggianti prive di individualità, come quelle che Socrate descrive nel libro VI della Repubblica, che acclamano gli oratori nelle assemblee e che vengono persuase dalla demagogia (parola che in origine non aveva un significato negativo), il cui unico scopo è quello di flectere, cioè trascinare le anime degli uditori. Demagogia che porterà gli individui, alla ricerca di ordine e protezione, a prefigurare l’ascesa di un uomo solo, in grado di preservare la sicurezza dello Stato, che accumulerà nelle proprie mani tutto il potere. E allora sì che la democrazia degenererà in tirannide.

Per inciso: tutto questo, pensandoci meglio, non sembra poi così tanto lontano da certe situazioni politiche novecentesche: ne penso due, in particolare, avvenute proprio nel nostro Paese, che evidenziano bene la cessione, da parte del popolo, delle proprie libertà in cambio di sicurezza e stabilità. Mi riferisco a Mussolini, nominato capo del governo dopo la guerra e la crisi dello stato liberale, e a Berlusconi, salito democraticamente al potere nel 1994 dopo lo scandalo di Tangentopoli, entrambi presentati come homines noves o, secondo la definizione più in voga, come uomini della Provvidenza.

E poi c’è Aristotele che, nei libri centrali della Politica, distingue tre tipi di “costituzioni”, e vede il governo del popolo come degenerazione della politía (“governo di molti”). La parola “democrazia” “serve a designare il governo popolare cattivo. Là dove descrive il popolo in preda ai demagoghi, suoi adulatori e corruttori, la democrazia vi appare governo non migliore di quello tirannico”. Quando a Polibio, nel VI libro delle Storie include la democrazia tra le tre forme di governo primarie indicandone come degenerazione l’oclocrazia (“potere della massa”). E Cicerone, nel De re publica, non farà altro che riprendere la dottrina polibiana.

Platone e Aristotele, soprattutto, portano alla luce un nesso esplosivo tra democrazia e tirannide, mostrando come questo legame sia in realtà molto più stretto di quanto pensiamo. Ma, critiche a parte, la città che ha dato i natali alla democrazia le ha anche riservato qualche momento di gloria: basti pensare al celebre discorso funebre di Pericle in commemorazione dei caduti del primo anno della guerra contro Sparta che Tucidide riporta nel II libro della Guerra del Peloponneso:

TucidideAbbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più desempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nellamministrazione dello Stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale più che per quello che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dalloscurità del suo rango sociale. Liberamente noi viviamo nei rapporti con la comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle abitudini giornaliere, senza adirarci col vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e senza infliggerci a vicenda molestie che, , non sono dannose, ma pure sono spiacevoli ai nostri occhi”.

Bel manifesto, quasi certamente il più famoso manifesto ideologico della democrazia antica, ma non bisogna farsi prendere da facili entusiasmi perché, come ricorda Umberto Eco, la forma di democrazia di Pericle era un populismo finalizzato ad ingraziarsi il popolo.

A questo manifesto si aggiunge, se vogliamo, il mito che Platone racconta nel Protagora, attribuito al sofista protagonista del dialogo a cui si deve, scrive Valentina Pazè, “lenunciazione del presupposto logico e assiologico della democrazia”. È uno dei tanti miti sull’origine della civiltà nel quale si racconta come, per sopravvivere pacificamente, all’uomo non basti solo il dono della sapienza tecnica (ricevuto da Prometeo con il dono del fuoco), ma occorra anche quello dell’arte politica, della giustizia e del rispetto, e di questo dono debbono essere partecipi tutti gli uomini.

Ora, la democrazia dei moderni, come ha spiegato Norberto Bobbio, è molto diversa da quella degli antichi: caratterizzata dal suffragio universale, non è diretta, ma rappresentativa; paradossalmente, proprio nel momento della sua massima diffusione, sta attraversando una crisi profonda da cui probabilmente uscirà trasformata (e non possiamo ancora sapere se la democrazia diretta ucciderà quella rappresentativa, se i partiti scompariranno, se riuscirà a resistere al populismo e a derive autoritarie che stanno dilagando in tutta Europa). Tuttavia, che ne dicano i suoi detrattori, rimane ancora oggi il sistema che meglio tutela l’eguaglianza, garantendo agli individui quei diritti e quelle libertà fondamentali che nessun altro regime politico sarebbe in grado di preservare. Certamente non un “sistema perfetto”: lo dice anche Popper per cui la democrazia è il “male minore” che potesse capitare (e illuminanti a questo proposito sono le riflessioni critiche di Luciano Canfora in La democrazia. Storia di unideologia, 2004 e Critica della retorica democratica, 2007 o, ancora prima, di Ugo Spirito in  1963). Il popolo, infatti, non è onnisciente, la maggioranza non ha sempre ragione e, un giorno, potrebbe scegliere anche la tirannide. È questo il problema fondamentale sollevato dai pensatori greci, da cui deriva il giudizio negativo sulla democrazia, e che ritroviamo soprattutto in Platone: se Socrate, il più sapiente e giusto dei filosofi, è stato condannato, allora non sempre il governo del popolo è in grado di tutelare la verità.

Ma cosa vogliamo dire quando ci riferiamo al popolo? Sin dall’antichità se con demokratia si è inteso il potere del démos, con il termine démos si è sempre fatto riferimento a diverse accezioni: “i molti” (oi polloi), “i più” (oi pleiones) la “moltitudine” (to plethos), la “massa” (ochlos), la massa dei poveri (aporoi) o dei lavoratori manuali (cheirones), i malvagi (poneroi). E ancora non va dimenticato il vocabolo latino populus (che va distinto dall’uguale termine femminile che significa “pioppo”), di cui i romani faranno, scrive Giovanni Sartori, “sia un concetto giuridico sia unentità organica”. Il popolo – emblematico è il vecchio e volgare démos rappresentato nei Cavalieri di Aristofane – si configura come un’entità pericolosa, spesso incompetente nell’esercizio della sovranità poiché, scrive Senofonte nella Costituzione degli Ateniesi, contiene il “massimo di ignoranza, di disordine, di cattiveria…” e, per la sua incontrollabilità e imprevedibilità, può anche compiere scelte sbagliate andando contro il bene comune. Vittima di una strumentalizzazione che, attraverso il populismo mediatico, caratterizza ancora i giorni nostri, il popolo è visto come una sorta di forza della natura, la cui irrazionalità è spesso resa con metafore naturalistiche: nel già citato logos tripolitikos Erodoto lo paragona a “un fiume impetuoso” che travolge tutto; Guicciardinialle onde del mare, le quale secondo eventi che tirano vanno ora in qua, ora in là, sanza alcuna regola, sanza alcuna fermezza”; e Manzoni, che nell’Adelchi con il termine “volgo” non intende di certo fare i complimenti al popolo dei Latini, lo paragonerà alla tempesta.

Ad affrontare di petto il cosiddetto “problema del demos” nell’esercizio della sovranità vi è un saggio scritto da Valentina Pazé, In nome del popolo. Il problema democratico (2009), nel quale vengono riportati alcuni esempi di pessime decisioni assunte dal popolo: dall’ingiusto processo ai reduci dalla battaglia delle Arginuse nel 405 a. C. alla condanna a morte di Socrate nel 399 a. C., dall’elezione di Luigi Napoleone nel 1848 alle elezioni che nel 1932-33 conducono Hitler al potere – e sulle decisioni prese in questo ultimo ventennio ai posteri l’ardua sentenza.

Ai nostri occhi, Napoleone (o, se volete, “Napoléon le Petit” come lo chiamava Hugo) e Hitler rappresentano gli esempi più lampanti di come si possa costruire il proprio potere sul “carisma” e sulla manipolazione del consenso del popolo. Mentre Napoleone ha istaurato un regime plebiscitario e populistico fondato sul suffragio universale, Hitler ha costituito uno Stato totalitario, contando sull’umiliazione tedesca per le pesanti condizioni del trattato di Versailles del 1919, sulla crisi della repubblica di Weimar e, soprattutto, sulle masse dei disoccupati, esasperate dalla crisi economica, che nel 1929 si volgono tutte verso il nazismo – tanto che nel 1932 gli iscritti toccano quasi il milione e mezzo, di cui circa un terzo operai.

Sulla psicologia del popolo si è scritto abbastanza: ancora attuali rimangono Psicologia delle masse e analisi dellIo di Freud (1921), Massa e potere di Elias Canetti (1960) e soprattutto, anche se precedente, Psicologia delle folle di Gustave Le Bon (1895), testo che non a caso Mussolini teneva sul comodino. Ma a volte la letteratura (si sa) è così rappresentativa da trascendere qualsiasi trattazione teorica. E qui non si può non pensare ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni (1821) e alla Chimera di Sebastiano Vassalli (1990), che ci offrono due efficaci rappresentazioni della massa.

Nonostante le differenze – dall’impostazione ideologica al rapporto con la realtà – sono due romanzi storici. Entrambi raccontano una storia avvenuta nel Seicento: quella narrata da Manzoni dura due anni, inizia nel 1628 con la passeggiata di Don Abbondio e si conclude nel 1630 con la celebrazione delle nozze tra Renzo e Lucia; mentre quella di Vassalli si estende dal 1590 al 1610, l’esatto periodo di tempo in cui vive la protagonista Antonia, la “strega” di Zardino, un piccolovillaggio padano situato ai piedi del “macigno bianco” – espressione con cui veniva definito il Monte Rosa dal “babbo matto” di Vassalli, il poeta Dino Campana. Entrambi strizzano l’occhio al loro presente, un presente – scrive Vassalli – fatto di “rumore”, di “milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi luna con laltra, la parolaio’. Io, io, io…”. Raccontando una Lombardia secentesca sotto la dominazione spagnola, Manzoni vuole parlare della sua Lombardia ottocentesca occupata dagli austriaci, come già aveva fatto qualche anno prima nel coro dell’atto terzo dell’Adelchi portando come exemplum la condizione dei Latini, quel “volgo disperso” sottomesso prima dai Longobardi e poi dai Franchi. Se gli italiani vogliono liberarsi dalla dominazione austriaca non devono aspettare un aiuto esterno, ma devono farlo con le loro forze. Dal canto suo Vassalli, con la storia di Antonia, racconta la desolazione del nostro presente. Se nella Chimera, come vedremo, la folla è in qualche modo marginale alla narrazione e compare solo alla fine, nei Promessi sposi essa è personificata e ha pari dignità di un qualsiasi altro personaggio, e per questo è fatta entrare in scena in molti momenti del romanzo.

L’atteggiamento di Manzoni nei confronti della massa non è sempre lo stesso: troviamo, da un lato, una “folla positiva”, che l’Autore mostra di apprezzare, come quella che conduce Ludovico (Fra Cristoforo) al convento dei fratti cappuccini (cap. IV), o il coro di fedeli che circonda il Cardinale Borromeo o, ancora, quella che assiste alla conversione dell’Innominato (cap. XXIII); dall’altro, una “folla negativa” verso cui Manzoni esprime un giudizio estremamente duro, che inizia ad entrare in scena già nel cap. IV, dove assiste al duello tra Ludovico e un nobile prepotente, e arriva sino alle pagine manzoniane sulla peste (cap. XXXI-II); ma è solo nei capitoli XII-III, dedicati ai tumulti di Milano, che essa compare in modo insistente nella sua funzione di personaggio, per poi disperdersi al tramontare del sole quando dallo spazio aperto della strada si passerà a quello chiuso dell’Osteria della Luna Piena (cap. XIV). Tra questi due poli opposti possiamo ancora considerare una “folla neutra”, che svolge una funzione di protezione e aiuto quando consente a Renzo di sfuggire al notaio criminale e ai due birri (cap. XV) consigliandogli di rifugiarsi in convento o in chiesa (cap. XVI).

Promessi-SposiMa torniamo ai capitoli sui tumulti:

Adesso scusatemi se devo saltabeccare di qua e di là, ma questa è una storia con molte disgrazie, e dobbiamo occuparci di quel che nel frattempo accadeva a Renzo. Il quale capitava a Milano nel momento in cui una folla disperata aveva dato inizio a un attacco ai forni del pane. Cosa era successo?”.

A parlare non è Manzoni, ma Umberto Eco che recentemente ha riscritto per i bambini la storia dei Promessi sposi. Ebbene, cosa era successo? Tutto comincia alla fine del cap. XI quando – è l’11 novembre 1628 – Renzo giunge a Milano comprendendo subito che è in atto una violenta rivolta per il prezzo del pane e il popolo sta dando l’assalto ai forni: è lo storico tumulto di san Martino, che inizia non prima della lunga digressione storica sulle ragioni della carestia (cap. XII). È lo stesso Renzo, ancora alle porte della città, ad incontrare i primi campioni di “folla”:

Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un ragazzotto; tutte tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutte tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati; infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste lossa. Luomo reggeva a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un podi più; dimodoché, quasi a ogni passo, ne volava via una ventata. Il ragazzotto teneva con tutte due le mani sul capo una paniera colma di pani; ma, per aver le gambe più corte desuoi genitori, rimaneva a poco a poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la paniera perdeva lequilibrio, e qualche pane cadeva”.

È una delle prime descrizioni che Manzoni, prima della scoppio del tumulto, ci fornisce della “folla”. Ciò che colpisce è l’atteggiamento nei confronti della donna, una figura grottesca, verso cui l’Autore esprime tutta la sua ironia e tutto il suo sarcasmo, descritta con accrescitivi e peggiorativi e definita “sconcia”, non tanto per l’aspetto fisico, quanto per la sua ingordigia. L’azione della folla, dopo l’assalto al forno delle grucce e quello mancato al forno del Cordusio, si manifesta in tutta la sua violenza nell’attacco al palazzo del vicario di provvisione – ritenuto responsabile della scarsità del cibo – che verrà salvato dal vice cancelliere spagnolo Ferrer. Qui la folla, divisa tra violenti e benintenzionati come Renzo, propone forse una delle sue figure più bestiali, la più “forte” in grado di esporsi più delle altre, cioè quella di “un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse”. Quella rappresentata da Manzoni è una folla ben più complessa e variegata di quella vassalliana.  Nell’analizzare (cap. XIII) i meccanismi delle rivolte popolari, Manzoni distingue tre tipologie di persone: quelli che fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; gli umani, che provano “spontaneo orrore del sangue e defatti atroci”; e infine la massa, “materiale del tumulto” che, essendo priva di volontà, viene a trovarsi succube delle prime due che mirano unicamente a controllarla per poter attuare i propri scopi. La massa dei tumulti, sempre descritta attraverso la metafora della tempesta, è una massa distruttrice, esaltata e informe, un materiale manipolato, ridotto a “cosa”, non dotato di una propria individualità e responsabilità, che si muove in “branchi” andando a caccia di prede. Qui l’uomo perde tutta la sua dignità per trasformarsi in una bestia. Quanto alla folla protagonista dei capitoli sulla peste, è credulona quanto scettica, ignorante quanto superstiziosa: di fronte all’evidenza del contagio, probabilmente per rimuoverne il timore, continuerà a negare la pestilenza attribuendone la colpa agli unguenti velenosi (fatto che porterà al processo e alla condanna di molti untori).

La folla rappresentata nella Chimera di Vassalli, anche se meno variegata, è ancora più feroce e sanguinosa di quella manzoniana. Il romanzo inizia con il nulla e termina con l’immagine dell’autore che dalle finestre della sua casa continua a contemplare quello stesso nulla, un tempo probabilmente occupato dal villaggio di Zardino, che ora non c’è più perché o portato via da un’alluvione del Sesia o spopolato dalla peste del 1630 (alla cui storia, tra l’altro, Manzoni aveva dedicato due interi capitoli del suo romanzo). Al centro, come abbiamo detto, c’è la storia di Antonia, accusata di essere una stria (strega) e di partecipare ai sabba col diavolo sul dosso dellalbera. Pharmakos di tutti i mali del villaggio, arrestata e torturata, verrà condannata al rogo. Ed è qui che la folla fa il suo ingresso in scena: nell’ultimo capitolo del romanzo (XXX) “La festa” – che è quello del tragitto in carrozza dalla prigione della Torre dei Paratici di Novara, in cui Antonia era stata trasferita dopo essere stata presa in consegna dal “braccio secolare”, al dosso dell’albera di Zardino – essa diventa protagonista della narrazione dimostrando tutta la sua bestialità. Dal finestrino della carrozza Antonia vede lucidamente “la folla lungo il percorso, i pugni alzati, le facce stravolte con le bocche spalancate a insultare e a maledire e a invocare una morte, la sua morte”. Una folla in delirio, dalle connotazioni ferine, che, a differenza di quella manzoniana, è anche attratta dal gusto del macabro:

Quelle bocche aperte con dentro quei pezzi di carne che si muovevanoChe insensatezza! Che schifo! E quellesplosione incontenibile di odio, da parte di individui che fino a pochi giorni prima non sapevano nemmeno che lei esistesse e ora volevano il suo sangue, le sue viscere, reclamavano dammazzarla loro stessi, lì sul momento e con le loro maniCera forse un senso, una ragione in tutto questo? E se non cera, perché accadeva?

Tra sputi, insulti, pugni, bastonate e tiri di ortaggi e pietre, Antonia arriva a Zardino. In quell’anno del Signore 1610, in quella notte, tutti sono pronti per assistere al grande evento. Antonia viene bruciata viva tra il giubilo della folla, che festeggia con fuochi d’artificio, tamburi, trombe, raganelle… Inizia la festa, una festa che forse non è mai finita.


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