Donna e poesia: Laura e gli stati d’animo petrarcheschi

Pubblicato il 17 Mar 2020 - 11:02am di Emilia Abbo

Nel periodo così tragico e surreale che stiamo vivendo,  penso che sia giusto cercare sollievo anche nella poesia, da sempre ristoro dell’anima. Il trecentesco scrittore Giovanni Petrarca, ad esempio, nel suo Canzoniere (1327-1368)  rese omaggio all’amata Laura, la quale suscita in lui un ventaglio di variegate emozioni e stati d’animo. 

Laura e Petrarca: elementi storici e biografici

La Laura cantata dal Petrarca venne da lui stesso indicata (nella sua raccolta epistolare Familiari) nella figura realmente esistita di Laura de Noves (1310-1348), figlia del cavaliere Audibert di Noves e moglie del marchese Ugo di Sade, che sposò nel 1325, dandogli ben undici figli.  Petrarca, che aveva sei anni più di lei, la vide per la prima volta ad Avignone, la città presso la quale si era trasferito nel 1312, ovvero quando il padre notaio, guelfo bianco, ed esiliato da Firenze, decise di seguire il Papato- che gli aveva assegnato diversi incarichi-  nella sua nuova sede. Petrarca vide Laura quando,  abbandonati gli studi giuridici, decise di prendere gli ordini minori ecclesiastici, e di porsi quindi a servizio dei Colonna (prima di Giacomo, con cui instaurerà un rapporto di amicizia fraterna, e poi di Giovanni). Il 6 aprile del 1327 Laura si trovava nella chiesa avignonese di Santa Chiara, ed era un lunedì, anche se- nella finzione poetica- il poeta afferma che si trattava di un venerdì santo. Da quel momento, Petrarca iniziò ad omaggiarla nei suoi versi, e questo avvenne per il resto della sua vita. Come si sa, nella poesia stilnovista era ammesso tessere le lodi di una donna maritata, a condizione che l’intento rimanesse assolutamente puro, platonico, e che la donna fosse angelicata, ovvero intesa solo come una via per elevare l’anima e raggiungere la salvezza celeste. Questo intento assume, in Petrarca, sfumature assai contrastanti, che avvicinano la Laura del Canzoniere , assai più che alla Beatrice dantesca, alla lirica umanistica, esemplificando un superamento delle stilizzazioni allegoriche di stampo medioevale.

Petrarca scrisse diverse opere nella sua vita, anche di una certa pedantesca erudizione, ma il suo Canzoniere, che lo accompagnò per un arco di tempo molto lungo (1327-1368)  è l’opera che meglio esprime il suo sentimento per Laura.  In quest’opera troviamo, ovviamente, il genere metrico della canzone, formato da un certo numero di strofe (le cosiddette stanze),  seguite da un ‘congedo’ finale,  ma anche e soprattutto il famoso sonetto petrarchesco, formato da quattordici versi (ognuno di undici sillabe) divisi in due quartine e due terzine, che rimano secondo lo schema ABBA ABBA CDE CDE.   L’opera ammonta ad un totale di 366 componimenti poetici, dei quali ben 103 sono dedicati alla morte di ‘Madonna Laura’. Laura scomparve il 6 aprile 1348 a causa della peste nera, e Petrarca ne ricevette notizia mentre a era Parma, alla corte di Azzo da Correggio. Il poeta in quel momento si trovava in Italia poichè  aveva vanamente tentato di raggiungere Roma per appoggiare la causa del tribuno Cola di Rienzo, che voleva instaurare un nuovo governo e riportare la sede papale a  Roma. Il poeta era già stato nella Città Eterna nel 1336 (realizzando il suo sogno di vederla) ed anche nel 1341 quando, dopo un esame svolto alla corte napoletana di Carlo D’Angiò,  ricevette l’ incoronazione poetica sul Campidoglio, per mano del senatore Orso dell’ Anguillara. Anche Parigi si era candidata per rendergli il medesimo riconoscimento, ma Petrarca scelse Roma.  Molti critici, di conseguenza, pensano che Laura sia solo un espediente per nascondere il vero amore di Petrarca, ovvero quello per la gloria letteraria, e che dietro al suo nome si nasconda null’altro che il lauro, ovvero l’alloro, che era l’albero sacro dedicato ad Apollo, protettore della poesia, ed usato per la corona che cingeva la fronte dei poeti, appunto, ‘laureati’. D’altra parte il mito di Dafne, che si trasforma in alloro per sfuggire ad Apollo, rappresenta  la fase finale di un amore non corrisposto (lo stesso che Petrarca lamenta nel Canzoniere dinanzi all’indifferenza della donna amata). Petrarca gioca anche stilisticamente col nome di Laura (o del lauro) usando parole come aura (brezza, aria) oppure auro (oro).

Il Canzoniere venne ultimato quando Petrarca (prima di trasferirsi a Arquà, nei Colli Euganei) nel 1362 giunse a Padova, presso Francesco di Carrara, e poi nella Repubblica di Venezia, dopo aver svolto per diversi anni attività diplomatica per i Visconti di Milano. Il poeta era tornato in Italia nel 1353 poichè deluso dalla politica papale di Innocenzo VI, che era succeduto a Clemente VI.

Caratterizzazione di Laura nella prima parte del Canzoniere

Nella prima parte del Canzoniere Laura è una leggiadra creatura che, come in un muto quadretto,  viene rappresentata in un contesto arcadico, varie volte identificabile con il circondario di Valchiusa, il paesino provenzale in cui il poeta si trasferì nel 1337. Se Laura è poeticamente viva, questo avviene soprattutto grazie alle diverse e contrastanti emozioni che suscita in Petrarca e che, grazie ai suoi versi, vengono fissate qua e là, in ordine sparso. Laura a volte è pietosa, altre volte invece è altera, e tiene il poeta sulle spine senza fargli chiaramente capire quello che pensa e prova per lui. Laura è un angelo tutto sommato accessibile, che ama gli specchi ed i gioielli con cui si adorna, e non è poi così difficile sorridere delle sue debolezze e civettuole incoerenze. Anche quando, nelle ultime liriche,  Laura assurgerà al Cielo, diventando un beato angelo, il poeta non si rassegnerà a questo epilogo. Avrà pace solo nel momento in cui lei assumerà nuovamente il suo bel corpo mortale, con quello stesso identico mutevole  carattere che ho fatto tanto soffrire, e scenderà in terra per consolarlo.

Se la Beatrice dantesca era il faro che illuminava il poeta verso la contemplazione celeste, attraverso Laura viene invece spesso esemplificato l’amore che Petrarca nutriva per il classicismo. La sua creatura, seppur sempre impeccabile nella sua compostezza e nel suo decoro estetico, a volte rammenta una ninfa,  poichè  sembra che la natura assorba la sua presenza al punto da diventare il suo eco :

Parme d’udirla, udendo i rami et l’ore

et le frondi, et gli augei lagnarsi, et l’acque

mormorando fuggir per l’erba verde. (son. CLXXVI, v. 9-11)

Parafrasi: Mi sembrò di sentirla, udendo i rami, le brezze e le fronde, il lamento degli uccelli , ed il mormorio delle acque che corrono veloci tra l’erba verde.

Il poeta evidenzia come Laura sia ancor più leggiadra della mitologica Elena, figlia di Leda:

I’ l’o’ più volte ( or chi fia che mi ‘l creda?)

ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde

veduto viva, et nel tronchon d’un faggio

e ‘n bianca nube, sì fatta che Leda

avria ben detto che sua figlia perde,

come stella che ‘l sol copre col raggio;

et quanto in più selvaggio

loco mi trovo e ‘n più deserto lido,

tanto più bella il mio pensier l’adombra. (Canz. CXXIX, v. 40-48)

Parafrasi: Io ho avuto diverse volte la sensazione (chi potrebbe crederlo?) di scorgerla viva nell’acqua chiara e sull’ erba verde,  oppure anche presso il tronco di un faggio oppure su una bianca nube, ed in tal aspetto che Leda <madre di Elena> avrebbe detto che a confronto sua figlia sarebbe risultata perdente come una stella che viene offuscata dai raggi del sole; e più mi trovo in luoghi selvaggi e spiagge deserte, più nei miei pensieri lei diventa bella.
Nota: Leda era moglie di Tindaro, re di Sparta, e madre di Elena,  la quale fu concepita per via di un inganno di Zeus, che prese la forma di cigno per avvicinarla e sedurla. Elena divenne moglie del greco Menelao, e poi promessa in premio al troiano Paride poichè, durante una competizione fra dee (innescata da Eris, seminatrice di discordia) aveva proclamato Afrodite la più bella. Il suo rapimento fu quindi la scintilla che provocò la decennale guerra fra Greci e Troiani.  

Petrarca a volte descrive Laura come una dea pagana, che si pone al di sopra delle miserie umane e che quindi resta indifferente anche alla sua sofferenza amorosa. Intendendo Laura sotto questa prospettiva, a maggior ragione la sua dipartita sarà sconvolgente:

‘n dee non credev’io che regnasse Morte. (Son. CCCXI, v.8)

Parafrasi: Non pensavo che una dea potesse essere mortale.

 Quello che davvero conta, a prescindere dalla natura divina o umana di Laura, è l’amore incondizionato del poeta, che (come esprime la forbita metafora dell’arco) rimane costante:

Uno spirto celeste, un vivo sole

fu quel ch’i’ vidi: et se non fosse or tale,

piagha per allentar d’arco non sana. (Son. XC, v.12-14)

Parafrasi : Uno spirito celeste, un vivo sole fu quello che io vidi, e anche se così non fosse (perchè Laura è in realtà è mortale, e diversa da come la immaginavo) la mia ferita (d’amore) sussisterebbe, e non si rimarginerebbe soltanto perchè l’arco (di Cupido) che l’ha provocata non è più teso.

Laura a volte parla solo con la luce dei suoi occhi, o con il fluire della sua chioma bionda. Il poeta si innamora di lei a prima vista, anche perchè non conosce ancora l’amarezza della delusione, dell’abbandono:

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi

che’n mille dolci nodi gli avolgea,

e ‘l vago lume oltre misura ardea

di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

 

e ‘l viso di pietosi color’ farsi,

non so se vero o falso, mi parea:

i’ che l’esca amorosa al petto avea,

qual meraviglia se di subito arsi? (Son. XC, v.1-8)

Parafrasi: I suoi capelli, biondi come l’oro, erano spettinati dal vento, che li avvolgeva in mille dolci nodi; e la mia appannata ragione ardeva oltremodo per in quei begli occhi, dei quali adesso invece è priva (poichè non ho più avuto occasione di rivederla) e poi mi sembrava (non so se m’ingannavo) che il suo viso assumesse un colorito pietoso nei miei riguardi: dal momento che ero già così predisposto ad innamorarmi, perchè meravigliarsi se questo avvenne subito, a prima vista?

Laura è sfuggente, reticente, e il suo attanagliare il poeta in uno stato di continua incertezza diviene il suo principale difetto e, allo stesso tempo, la sua più grande abilità:

Però s’i’ tremo, et vo col cor gelato,

qualor veggio cangiata sua figura,

         questo temer d’antiche prove è nato. (Son. CLXXXIII, v. 9-11)

Parafrasi: Se io tremo, e mi raggelo nel cuore ogni volta che lei si comporta nei miei riguardi in modo diverso, è perchè questo suo mettermi alla prova è già avvenuto altre volte, e quindi la mia paura si basa sul fatto che so cosa significhi non essere corrisposto, e quanto mi faccia soffrire.

Petrarca a volte applaude il suo amore, ne benedice le circostanze,”‘l giorno, e ‘l mese et l’anno“, e benedice anche la sofferenza che esso gli arreca ” et l’arco, et le saette ond’ <egli> <fu> punto, / et le piaghe che ‘nfin al cor <gli> vanno (Son. LXI, v.7-8).  Il poeta, anche quando paragona Laura ad una creatura celeste, non sottovaluta la sua terrena bellezza, ma semmai la potenzia elevando ad un piano superiore il suo portamento, il suo modo di esprimersi:

Non era l’andar suo cosa mortale,

ma d’angelica forma; et le parole

sonavan altro, che pur voce umana (Son. XC, v.9-11)

Parafrasi: Il modo in cui camminava non la rendeva un essere di questa terra, ma una creatura angelica, ed anche le sue parole sembravano tutto, fuorchè umane.

Altre volte, invece, il poeta maledice il suo amore, cosicchè nel sonetto “L‘oro et le perle e i fior’ vermigli e bianchi” (XLVI) gli ornamenti con cui Laura si adorna diventano per lui “acerbi et velenosi stecchi” e gli specchi che ella consuma vagheggiando se stessa sono “micidiali” (v.7) fabbricati “sopra l’acque/ d’abisso” , ovvero oggetti infernali, “tinti nell’eterno oblio” del fiume Lete. Anche quando Laura è rappresentata come una creatura malvagia, che fa dannare il poeta, la sua bellezza esteriore rimane comunque intatta.

Non essendo Laura un vero angelo, non può nemmeno essere un vero diavolo, e pertanto non sarà mai una pericolosa tentatrice, ma piuttosto una vanitosa creatura in cerca di ammirazione. Per questa ragione, Petrarca non esita a tessere una galante tela per rendere omaggio alla bellezza dell’amata. Fra le varie immagini poetiche, spicca l’ossimoro ‘calda neve’, che sintetizza,  oltre ad un senso di pallore acceso da fervore giovanile, anche il carattere contraddittorio di Laura, che alterna calorosa affettuosità a difensiva freddezza:

La testa or fino, et calda neve il volto,

hebeno i cigli, et gli occhi eran due stelle,

onde Amor l’arco non tendeva in fallo;

 

perle et rose vermiglie, ove l’accolto

dolor formava ardenti voci et belle;

fiamma i sospir’, le lagrime cristallo. (Son. CLVII, v. 9-14)

Parafrasi: I suoi capelli erano come fine oro, il suo viso come neve calda,  le ciglia erano scure come l’ebano, e i suoi occhi erano due stelle, da cui l’Amore (Cupido) mai tendeva invano il suo arco; (il sorriso e le labbra) erano come perle e rose vermiglie, dove l’accolto mio dolore si trasformava in parole belle e ardenti, i suoi sospiri erano fiamma, le sue lacrime cristallo.

Se Dante aveva modestamente espresso la sua inadeguatezza nel descrivere la beatitudine del Paradiso, Petrarca, nel trecentesco sonetto “Vergognando talor ch’ancor si taccia” afferma che la sua capacità poetica è insufficiente per descrivere la bellezza di Laura:

Più volte già per dir le labbra apersi,

poi rimase la voce in mezzo ‘l pecto:

ma qual son poria mai salir tant’alto?

 

Più volte incominciai di scriver versi:

ma la penna et la mano et l’intellecto

rimaser vinti nel primier assalto. (Son. XX, v. 9-14)

Parafrasi : Più di una volta socchiusi le labbra per parlare, ma poi la voce mi è rimasta nel petto; del resto quale suono potrebbe salire così in alto? Più di una volta ho anche cominciato a scrivere dei versi, ma la penna, la mano ed anche la mia ispirazione sono stati sconfitti fin dall’inizio.

Il rinascimentale Shakespeare, in una terza fase dei suoi sonetti, i quali avranno un diverso schema metrico (ABAB CDCD EFEF GG) affiderà invece ai suoi versi, con una certa presunzione, la capacità di rendere immortale l’oggetto delle sue attenzioni (si veda, ad esempio, il sonetto ‘Potrei paragonarti ad un giorno d’estate?’)

Altre volte Laura è altezzosa, nonchè spietata ancor più di Cesare, “Que che ‘n Tesaglia ebbe le man’ sì pronte/ a farla del civil sangue vermiglia” (Son. XLIV, v. 1-2). Laura sembra immune ai dardi d’amore che feriscono il poeta, ed ancora una volta insensibile alla sua sofferenza:

Ma voi che mai pietà non discolora,

et ch’avete gli schermi sempre accorti

contra l’arco d’Amor che ‘ndarno tira,

 

mi vedete straziare a mille morti:

nè lagrima però discese anchora

da’ be’ vostri occhi, ma disdegno et ira. (idem, v.9-14)

Parafrasi: Ma voi che non impallidite mai di pietà, e che siete sempre pronta a difendervi dalle frecce che invano l’arco dell’Amore scocca, mi vedete straziare ogni volta come se morissi mille volte, però nessuna lacrima è ancora scesa dai vostri begli occhi, bensì soltanto disdegno ed ira.

Il poeta, dinanzi a tanto amore mal riposto, inizia a rivoltarsi contro Laura, sostenendo che avrà “sempre in odio” i suoi occhi, “la fenestra / onde Amor <gli> aventò mille strali (Son. LXXXVI, v. 3-4 ). Laura a volte rasenta la superbia e pertanto non si degna di “mirar sì basso colla mente altera” (Son. XXI, v.4). Inoltre,  per via del suo egocentrismo, è paragonata al personaggio mitologico Narciso, il cacciatore (figlio di una ninfa e di un dio fluviale) che disdegnava l’amore altrui e quindi venne punito innamorandosi della sua immagine riflessa, dentro la quale cadde ed annegò. Tuttavia Laura, in quanto a bellezza,  risulta un fiore decisamente superiore:

Ma s’io v’era con saldi chiovi fisso,

non devea specchio farmi per mio danno,

a voi stessa piacendo, aspra et superba.

 

Certo, se vi rimembra di Narcisso,

questo et quel corso ad un termino vanno,

benchè di sì bel fior sia indegna l’erba. (Son. XLV, v. 9-14)

Parafrasi : Ma se io fossi radicato saldamente (nel vostro cuore) lo specchio non mi recherebbe danno, rendendovi aspra e superba, poichè amate solo la vostra immagine. Certo, se vi ricordate di Narciso, saprete che farete la stessa fine, avendo un unico destino, ma con la differenza che voi siete talmente bella da rendere indegna l’erba che vi accoglie.

Stati d’animo di Petrarca

Incertezza

Talvolta Petrarca è talmente dipendente dalle reazioni di Laura che almanacca sui suoi gesti più insignificanti, individuando in lei l’ago della bilancia in grado di determinare il suo stato interiore. Laura, nel sonetto ‘Volgendo gli occhi al mio novo colore’, è metaforicamente immaginata con una chiave in mano, il che le conferisce rassicurante domesticità, ma la rende anche una sorta di carceriera, da cui dipende il destino del poeta. E’ da notare come l’enjambement, che è seguito dalla seconda terzina del sonetto, potenzi il senso di distanza, e quindi di irraggiungibilità, che il poeta avverte nei confronti della donna amata:

Del mio cor, donna, l’una et l’altra chiave

 

avete in mano; <…> (Son. LXIII, v.11-12)

Parafrasi: Donna, avete in mano sia la felicità che la dannazione del mio cuore.

L’indecisione di Laura lo conduce ad uno stato di febbrile impazienza, resa anche stilisticamente dal ritmo assonante creato dalla ripetizione di ‘et’, che sembra quasi un ticchettio che scandisce l’interminabile e tormentoso passare del tempo, quello che crea anche la differenza fra la frenesia della vita e la calma della morte:

Pace non trovo, et non o’ da far guerra;

e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;

et volo sopra ‘l cielo, et giaccio in terra;

et nulla stringo, et tutto il mondo abbraccio

<…>

Pascomi di dolor, piangendo rido;

egualmente mi spiace morte et vita:

in questo stato son, donna, per voi. (Son. CXXXIV v.1-8)

Parafrasi:  Pace non trovo ma non posso combattere; e temo, e spero, e ardo e sono freddo come il ghiaccio, e volo sopra il cielo, e mi sdraio a terra, e non stringo nulla, ed abbraccio il mondo intero <…>.  Mi nutro di dolore, rido e piango allo stesso tempo, mi spiace sia della vita che della morte in ugual misura, e in questo stato sono, o donna, per voi.

Nella canzone ” Di pensier in pensier” (CXXIX) il poeta definisce il suo stato di incertezza “viver dolce- amaro“, e paragona il suo amore ad un cammino faticoso, tortuoso, in cui ogni stato d’animo è straziato, oscuro e sofferto come se fosse una montagna da scalare. La sua anima “or ride, or piange, or teme, or s’assecura” e il viso che la esprime “si turba et rasserena“, rivelando il suo incerto stato.  Le sue illusioni, da lui accarezzate come “dolci errori“, si confondono con la realtà.

Il poeta si affida metapoeticamente ai suoi versi come sosta da una situazione che, nella sua altalena di illusioni e disinganni, lo fa sentir come “pietra morta in pietra viva“. Si affida quindi alla sua canzone nella speranza di poter ricomporre la scissione del suo essere. Giochi di parole che riconducono all’amata (ma anche al lauro, ovvero all’incoronazione poetica) come “l’aura”, e “laureto”, potenziano l’idea di un pensiero che ricorre costantemente e ma che allo stesso tempo viene proiettato, come atto consolatorio, oltre una linea immaginaria:

Canzone, oltra quell’ alpe

là dove  il ciel e’ più sereno et lieto

mi rivedrai sovr’un ruscel corrente,

ove l’aura si sente

d’un fresco odorifero laureto

Ivi e’ ‘l mio cor, et quella che’l m’invola;

qui veder poi l’imagine mia sola. (Canz. CXXIX, v.66-72)

Parafrasi : Canzone, là oltre quella montagna dove il cielo è più lieto e sereno mi rivedrai su un ruscello che scorre, dove si sente l’olezzare di un fresco e profumato bosco di allori; là è il mio cuore, e colei che questo cuore me lo ruba, qui puoi vedere solo la mia apparenza.

Auto-ironia

A volte Petrarca sdrammatizza la sua situazione di innamorato non corrisposto attraverso l’ auto-ironia. Nel sonetto “Del mar Tirreno a la sinistra riva“, ad esempio, il poeta è talmente immerso nei suoi pensieri da cadere in maniera rocambolesca in un ruscello coperto dall’erba, un po’ come se metaforicamente inciampasse nelle trecce dell’amata (più di una volta definite ‘treccie’ per esigenze metriche). L’idea del cadere ‘non già come persona viva’ rammenta vagamente Dante, che nel quinto canto dell’ Inferno cadde ‘come corpo morto cade’ dopo la narrazione di Paolo e Francesca, che suscita in lui un senso di infinita pietà. Il poeta quindi potrebbe anche alludere, in chiave assai meno tragica, a come lui stesso si è ridotto per inseguire la sua chimera amorosa:

Amor, che dentro all’alma bolliva,

per rimembranza de le treccie bionde

mi spinse, onde in un rio che l’erba asconde

caddi, non già come persona viva. (Son. LXVII, v. 5-8)

Parafrasi : L’Amore, che ribolliva dentro la mia anima mentre ricordavo le trecce bionde, mi ha dato una spinta, cosicchè sono caduto in un corso d’acqua nascosto dall’erba, come se il mio corpo non fosse di persona viva.

Il poeta si compiace del fatto che almeno stavolta non si sono bagnati i suoi occhi (a causa delle lacrime), bensì i suoi piedi. La cesura del verso 11 sembra proprio ‘dare tempo’ al lettore di rendersi conto di suddetto senso dell’ umorismo, intervallando la lettura con un indulgente sorriso:

Piacemi almen d’aver cangiato stile

dagli occhi a’ pie’, se del loro esser molli

gli altri asciugasse  un più cortese aprile. (idem, v.12-14)

Parafrasi: Sarei contento di aver spostato l’attenzione (del lettore) dalle lacrime dei miei occhi all’inciampare dei miei piedi,  se almeno il mio viso bagnato venisse asciugato da una primavera un po’ più mite <ovvero da una Laura meglio disposta nei miei riguardi>.

Nel sonetto “Per mezz’i boschi inhospiti et selvaggi”, il poeta sta vagando per la pericolosa ed inospitale selva d’ Ardenne (che fa parte dell’ omonimo altipiano della Francia nord-orientale), ma è talmente (ed incautamente) preso dal pensiero dell’amata che, creando un contrasto con l’inquietante contesto in cui si trova (adatto ad uomini temerari ed armati) giunge a perdere il senso della realtà, scambiando gli alberi tipici di questo luogo per “donne e donzelle” :

Per mezz’i boschi inhospiti et selvaggi,

onde vanno a gran rischio uomini et arme,

vo securo io, chè non po’ spaventarme 

altri che ‘l sol ch’à d’amor vivo i raggi;

 

et vo cantando (o penser’ miei non saggi!)

lei ch’el ciel non poria lontana farme,

ch’i’ l’ho negli occhi; e veder seco parme

donne e donzelle, e sono abeti et faggi. (Son. CLXXVI, v. 1-8)

Parafrasi: Attraverso i boschi inospitali e selvaggi, dove con gran rischio si addentrano uomini armati, io cammino invece sicuro, perchè nulla può spaventarmi a parte il sole (Laura) che irradia (con gli occhi) vivo amore; quindi vado cantando (oh, pensieri miei non saggi, imprudenti!) lei che il cielo non può rendermi lontana, <e questa immagine nella mia mente si fa cosi viva> che mi sembra di scorgere al suo seguito anche signore e signorine, che invece sono abeti e faggi.

Nel sonetto”Pien di quella ineffabile dolcezza“, sembra quasi che Petrarca voglia rimediare alla ‘gaffe’ precedente’, mettendo subito in chiaro che nel luogo isolato in cui si trova (identificabile col paesino provenzale di Valchiusa) non ci sono donne, ma solo ‘fontane e sassi‘ . La parola ‘lassi’ rima con ‘sassi’ forse proprio per creare un legame fra la sua emotività visionaria  e gli oggetti che potrebbero portarlo a confondere realtà ed immaginazione:

In una valle chiusa d’ogni ‘ntorno,

ch’è refrigerio de’ sospir’ miei lassi,

giunsi  sol cum Amor, pensoso et tardo.

 

Ivi non donne, ma fontane et sassi,

et l’imagine trovo di quel giorno

che ‘l pensier mio figura, ovunque io sguardo. (Son. CXVI, v. 9-14)

Parafrasi: In una valle chiusa tutta intorno, che è consolazione ai miei tristi sospiri, giunsi solo con Amore, pensoso e lento. Qui non ci sono donne, ma solo fontane e sassi, e nella mia mente si affaccia il ricordo di quel giorno < quando vidi Laura> che il mio pensiero raffigura ovunque io muova lo sguardo.

Riflessione

La comicità è tuttavia è ben lungi dalle vere intenzioni di Petrarca, in quanto egli vuole invece tendere al serio, se non addirittura al tragico. Di conseguenza, il poeta tende a riflettere un po’ troppo, cercando di spiegarsi il fenomeno amoroso con curiosità filosofica. Nel sonetto XLVIII, ad esempio, si ricorre ad elaborate elucubrazioni mentali nel tentativo di  comprendere come mai il sentimento per Laura non sia ricambiato con altrettanta intensità.

Se mai foco per foco non si spense,

nè fiume fu già mai secco per pioggia,

ma sempre l’un per l’altro simil poggia,

et spesso l’un contrario l’altro accense,

 

Amor, tu che’ pensier’ nostri dispense,

al qual un’alma in duo corpi s’appoggia,

perchè fai in lei con disusata foggia

men per molto voler le voglie intense? (Son.XLVIII, v.1-8)

Parafrasi: Se il fuoco non è mai stato spento dal fuoco, se il fiume non si è mai seccato per via della pioggia, ma sempre avviene che ciò che è simile rimanga in una fase tranquilla, di stasi laddove ciò che è diverso operi attivamente (poichè un elemento riesce ad accendere suo contrario) allora chiedo a te,  Amor, che governi i nostri pensieri, e che fai in modo che due corpi diventino una sola anima: Come mai con lei (Laura) ti comporti diversamente (da ciò che natura detta) e la rendi indifferente dinanzi al mio desiderio così intenso?

Nel sonetto “Io mi rivolgo indietro a ciascun passo“, il poeta si chiede, dopo essersi allontanato da Laura, se il suo corpo possa continuare ad esistere senza il soffio vitale che lo anima. E poi conclude estendendo la sua situazione a tutti coloro che, come lui, si struggono per amore. Questa tendenza a riflettere sulla sua situazione, giungendo perfino a generalizzarla, rischia di trasformare il sentimento unico e particolare che ha per Laura in un concetto astratto, se non addirittura in una sterile freddura:

Talor m’assale in mezzo a’ tristi pianti

un dubbio: come posson queste membra

da lo spirito lor viver lontane?

Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra

che questo è privilegio degli amanti,

sciolti da tutte qualitati humane? (Son. XV, v.9-14)

Parafrasi: A volte mi assale in mezzo ai miei tristi pianti un dubbio: come può questo corpo vivere separato dal suo spirito? Ma mi risponde Amore: non ti sovviene che è proprio questo il privilegio di chi ama, ovvero quello di essere liberi da tutto ciò che è umano <e quindi poter amare nonostante la lontananza>?

Tuttavia, nella canzone “I’ vo pensando, et nel penser m’assale” (CCLXIV)  perfino la tendenza all’analisi ed al rimuginare sui sentimenti raggiunge un effetto poetico. In questo frangente, la ragione e l’istinto che coesistono nel poeta compaiono attraverso due personaggi allegorici.  La ragione fa a Petrarca un eloquente discorso, mettendolo in guardia dalla caducità dei piaceri terreni, ovvero da “quel falso dolce fugitivo” “che “‘l mondo traditor può dare altrui” (v.28-29). Fra i vari luoghi comuni, tipicamente medioevali, che la ragione menziona, emerge anche una vena poetica:

Già sai tu ben quanta dolcezza porse

agli occhi tuoi la vista di colei

la qual ancho vorrei

ch’a nascer fosse per più nostra pace. (Canz. CCLXIV, v.37-40)

Parafrasi: E’ talmente tanta la dolcezza che porse ai tuoi occhi la vista di colei (Laura), che sarei contenta se rinascesse un’altra volta per renderci ancora più tranquilli e sicuri del fatto che non verremo separati da lei.

Il ragionamento viene poi ravvivato dal ricordo della nascente passione per Laura, una “fiamma” “accesa“, corsa dritta nel cuore del poeta, un “ardor fallace” che ha perseverato per  molti anni. L’istinto e la passione amorosa non parlano, ma operano, soppiantando ogni argomentazione e ponendogli dinanzi il “lume de’ begli occhi che <lo> strugge, e che lo “ritien con un freno / contra chui nullo ingegno o forza valme“. A questo punto, il poeta sintetizza la sua situazione attraverso una suggestiva metafora :

Che giova dunque perchè tutta spalme

la mia barchetta, poi che ‘nfra li scogli

è ritenuta anchor da ta’ duo nodi ?  (idem, v.81-83)

Parafrasi: A cosa serve dunque spalmare la mia barchetta di pece (per farla scorrere meglio, rendendola impermeabile all’acqua) se poi resta incastrata in mezzo agli scogli a causa di due ostacoli (che sono l’amore per Laura e per la gloria terrena)?

Il poeta ammette quindi di essere ancorato alla terra perchè anela a Laura ma anche per vanitoso amore dell’altrui plauso. Questa sua  umana debolezza viene da lui ammessa con la similitudine di un uomo che si risveglia da un incubo ma che, allo stesso tempo, non riesce a liberarsene, e quindi diventa totalmente inerme:

Che ‘n guisa d’uom che sogna

aver la morte inanzi gli occhi parme;

et vorrei far difesa, et non o’ l’arme.  (Idem, v. 88-90)

Parafrasi: Mi sembra di essere come un uomo che sogna di avere la morte davanti agli occhi, e vorrei difendermi, ma non ho le armi adatte per farlo.

Passione

Petrarca, più che tratti ardenti ed ardimentosi, rivela generalmente un indole che tende a patire, a lamentarsi, a cedere alla malinconia. Soltanto in qualche rara occasione emerge in lui un sentimento di prepotenza e di forza, come in quel sonetto in cui si rivolge al fiume Po. L’autore aretino era affezionato a questo fiume per via del suo legame col nord-Italia, che lo portò in Emilia, in Lombardia e in Veneto.

Pur riconoscendo la superiorità della corrente, che ha il potere di travolgere il suo corpo, il poeta sente che l’impeto dell’acqua del fiume non ha tuttavia la veemenza necessaria per sommergere la sua anima, che è densa di audacia, e quindi procede dritta come un’imbarcazione che non ha bisogno, per andare avanti, di ingannare il vento con studiate manovre:

Po, ben può tu portartene la scorza

di me con le tue possenti et rapide onde,

ma lo spirto ch’iv’entro si nasconde

non cura nè di tua nè d’altrui forza;

 

lo qual senz’alternar poggia con orza

dritto per l’aure al suo desir seconde,

battendo l’ali verso l’aurea fronde,

l’acqua e ‘l vento e la vela e i remi sforza. (Son. CLXXX, v.1-8)

Po, tu puoi portare via la parte più esteriore di me con le tue possenti e rapide onde, ma lo spirito che dentro al corpo si nasconde non bada nè alla tua e nè all’altrui forza; poichè lo spirito, senza bisogno di alternare le azioni di poggiare ed orzare (come avviene quando si manovra una barca a vela) fila liscio per l’aria, assecondando il suo desiderio, e battendo le ali verso la dorata fronte (di Laura)  supera la velocità dell’acqua, del vento, della vela ed anche dei remi.

Nella canzone “Gentil mia donna, i’ veggio” , il poeta affonda nella bellezza degli occhi di Laura, fino a berne la dolcezza con insaziabile piacere. Tale atteggiamento fa trapelare, se non vero e proprio fervore, un che di sensuale. Dapprima gli occhi sono come “un dolce lume” che mostra la via verso le bellezze celesti, ovvero un qualcosa che lo valorizza e che lo allontana “dal volgo” (ovvero da coloro che non hanno l’animo nobilitato dall’amore), per poi diventare, in un secondo momento,  “vaghe faville“, ovvero un qualcosa di più accessibile, seppur sempre “angeliche, beatrici“. Gli occhi di Laura giungono “ove ‘l piacer s’accende / che dolcemente <lo> consuma et strugge“.  Il poeta sprofonda, gradualmente, in una sorta di ebbrezza, fin quando gli occhi vengono colti nel movimento voluttuoso del loro volgersi “ tra ‘l bel nero e ‘l biancho“. Dinanzi all’acceso spasimante, Laura  si scherma il viso con il velo e la mano:

Torto mi fece il velo

et la man che sì spesso s’atraversa

fra ‘l mio sommo dilecto

et gli occhi, onde dì et notte si rinversa

il gran desio per isfogare il petto,

che forma tien dal variato aspetto. (Canz. LXXII, v.56-60)

Parafrasi: Mi offese il velo e la sua mano che cosi spesso si pone fra il mio sommo diletto (il suo viso) ed i miei occhi, cosicchè sia di notte che di giorno aumenta il gran desiderio di esternare quello che ho nel cuore, nell’animo, che cambia a seconda degli umori di Laura, dei suoi diversi atteggiamenti nei miei riguardi.

Dopo il difensivo gesto di Laura, il poeta, invece di abbattersi (come generalmente accade), si ripropone di cambiare se stesso, al fine di poter godere in un futuro non troppo distante quella felicità che al momento che gli è stata negata:

Perch’io veggio, et mi spiace,

che natural mia dote a me non vale

nè mi fa degno d’un sì caro sguardo,

sforzomi d’esser tale

qual a l’alta speranza si conface,

et al foco gentil ond’io tutto ardo. (Idem, 61-66)

Parafrasi: Siccome mi accorgo, e me ne dispiaccio, che le mia indole ed il modo in cui sono non le aggrade, e non mi rende meritevole di uno sguardo a me così caro, allora mi sforzo di essere diverso, di migliorarmi per essere degno di una speranza così grande, ma anche di quel nobile fuoco (la luce dei suoi occhi, e/o le sue guance accese di rossore) per cui io ardo in ogni parte del mio essere.

Malinconia

Il poeta assume un’attitudine più contemplativa  nella canzone “Poi che per mio destino”, che sarebbe poi una sorta di continuazione di quella precedente. Il poeta non gode più degli occhi di Laura, ma li desidera come “fontana d’ogni <sua >salute“, unico suo conforto. Il poeta, che è giunto ad una sorta di atarassia, che ha placato il suo ardore, ora si concentra “sul suon delle parole” e sugli “effetti” che  “nel  <suo> cor gli occhi soavi fanno“:

Pace tranquilla senza alcuno affanno

simile a quel ch’è nel ciel eterna,

move da lor innamorato riso (Canz. LXXIII, v.67-69)

Parafrasi: Pace tranquilla, e senza nessuna preoccupazione- simile a quella che è eterna in Cielo- scaturisce dai suoi occhi innamorati e ridenti.

Nella maggior parte delle situazioni, il poeta sperimenta una sproporzione fra ciò che ha e ciò che vorrebbe, fino al punto di frustrarsi e di logorarsi. Lungi dal lanciarsi temerariamente alla conquista di ciò che desidera, l’innamorato entra semmai in uno stato di lamentoso torpore. Chiuso nella sua solitudine, ovvero nell’intimità della “cameretta” e del “letticciuolo”, Petrarca riesce inizialmente a dar sfogo alla sua anima. Lo schema delle rime riguardanti le due quartine del sonetto (ABBA ABBA) rende anche visivamente l’idea del poeta ‘incapsulato’ fra le protettive mura della sua stanzetta e messo al sicuro dalle sponde del suo piccolo letto:

O cameretta che già fosti un porto

a le gravi tempeste mie diurne,

fonte se’ or di lagrime nocturne,

che ‘l dì celate per vergogna porto.

 

O letticciuol che requie eri et conforto

in tanti affanni, di che dogliose urne

ti bagna Amor, con quelle mani eburne,

sol ver’ me crudeli a sì gran torto! (Son. CCXXXIV, v. 1-8)

Parafrasi: O cameretta, che già fosti un rifugio alle grandi tribolazioni della mia giornata, fonte sei ora di lacrime sparse durante la notte, poichè durante il giorno, a causa della vergogna,  le tengo nascoste.  O piccolo letto, consolazione e conforto di tanti trascorsi momenti di sofferenza,  di quale doglioso pianto ti bagna adesso Amor, con le sue scure mani, crudeli soltanto nei miei riguardi, ed in maniera così ingiusta!

Tuttavia, non riuscendo ugualmente a liberarsi dall’ossessiva tristezza che lo attanaglia, il poeta fugge nei campi, e, paradossalmente, chiede conforto proprio a quel”vulgo” che-non essendo ricettivo all’ Amore, ma assorbito nelle sue pratiche attività e materiali contingenze- non può immedesimarsi empaticamente nel suo stato di avvilimento:

Nè pur il mio segreto e ‘l mio riposo

fuggo, ma più me stesso e ‘l mio pensero,

che, seguendol, talor levommi a volo;

 

e’l vulgo a me nemico et odioso

(chi’l pensò mai?) per mio refugio chero:

tal paura o’ di ritrovarmi solo. (Idem, v. 9-14)

Parafrasi: Non sto fuggendo tanto dal mio riserbo e dal mio riposo quanto da me stesso e dal mio pensiero (per Laura), che ad un certo punto è diventato talmente insistente da farmi alzare e fuggire fuori, cosicchè ho chiesto aiuto- tanta è la mia paura di rimanere solo-  proprio a quel volgo (chi lo avrebbe mai pensato?) che solitamente io trovo così ostile ed odioso.

Il poeta deve quindi a tutti i costi, con una punta di infantile vittimismo, trovare un interlocutore alle sue recriminazioni, che tuttavia si attenueranno grazie ad un ‘esercizio’ mentale. Nel sonetto “Piovonmi amare lagrime dal viso“, ad esempio, l’innamorato è privato della vista di Laura, del suo “dolce mansueto riso“,  ma riesce lo stesso ad ovviare un sentimento di ribellione e/o di disperazione immaginando che la sua anima esca dal suo corpo per andare verso la donna amata. Per dirla in termini moderni, è un po’ come se il poeta svolgesse una sorta di ‘visualizzazione’ per allentare il suo malessere interiore:

Largata alfin co l’amorose chiavi

l’anima esce del cor per seguir voi;

et con molto pensier indi si svelle. (Son. XVII, v.12-14)

Parafrasi: Aperta infine con le chiavi dell’amore, l’anima esce dal corpo per seguirvi, e con molta fatica riesce a staccarsi, a liberarsi.

In un altro sonetto,  il poeta si consola affidandosi al fiume Rodano (che conosceva bene poichè attraversa la Provenza) il quale diventa una sorta di messaggero d’amore celere ed infaticabile, il cui corso non frena “nè stanchezza, nè sonno“. Il fiume viene, allo stesso tempo, indirizzato a Laura, “ch’ addorna e ‘nfiora la <sua> riva manca“. Il poeta, dunque,  si rivolge al fiume per esprimere a Laura quella tenerezza amorosa che, essendo sopraffatto dalla sua afflizione,  non riesce a dimostrarle verbalmente:  “basciale ‘l piede, o la man bella et bianca; / dille, e ‘l basciar sie ‘nvece di parole” (Son. CCVIII, v.12-13).

Nella celeberrima canzone “Chiare, fresche et dolci acque” il poeta sublima la sua tristezza attraverso la memoria, e giunge presso una sorgente, identificabile con la provenzale fonte di Valchiusa, da cui nasce il fiume Sorgue. Questo luogo, posto in una piccola valle ai piedi di una parete rocciosa, era a poca distanza dall’omonimo borgo in cui il poeta abitò dal 1337.  Petrarca ricorda di aver visto un giorno Laura porre là il suo bel corpo, e raddolcisce la sua mestizia notando la perfetta sinergia fra Laura e la natura:

Chiare, fresche et dolci acque,

ove le belle membra

pose colei che sola a me par donna;

gentil ramo ove piacque

(con sospir’ mi rimembra)

a lei di fare al bel fiancho colonna;

herba et fior’ che la gonna

leggiadra ricoverse

co l’angelico seno;

aere sacro, sereno,

ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:

date udienzia insieme

a le dolenti mie parole extreme. (Canz. CXXVI, v.1-13)

Parafrasi: Limpide, fresche e dolci acque dove immerse il suo bel corpo l’unica che per me merita il nome di donna; nobile ramo che lei scelse per appoggiarsi  (ancor me ne ricordo sospirando): erba e poi fiori che la sua leggiadra veste copri come anche il suo angelico seno; aria limpida, serena, dove l’ Amore, attraverso i suoi begli occhi, mi aprì il cuore: ascoltate voi tutti insieme le mie dolorose ultime parole

Il poeta, che ricorda con la coscienza di un desiderio tanto vano quanto lungamente nutrito, riesce a mitigare il suo desolante stato con tinte soavi, con un sentimento dolce-amaro. La natura, a cui è associato il ricordo di Laura, ascoltando le sue dolorose parole extreme” calma il suo animo, e trasforma tutto ciò che appare fosco e cupo in un nostalgico sospiro.  Il poeta non può fare a meno, comunque, di  crogiolarsi  in una passiva autocommiserazione, perdendo energia mascolina e vitale. Il suo corpo è “meschino“, il suo spirito “lasso‘, la sua carne “travagliata” come quella di un Cristo sofferente.

Perfino la morte diventa per il poeta amabile e desiderata, a condizione che la sua tomba si trovi nello stesso luogo in cui ha visto Laura per la prima volta (nella realtà, il sepolcro di Petrarca non si trova ad Avignone, bensì ad Arquà, presso Padova, dove il poeta trascorse gli ultimi anni della sua vita). La sua ultima dimora diviene “riposato porto” e “tranquilla fossa“. Affondando in una sorta di masochismo, Petrarca immagina che Laura, tornata sulla terra per cercarlo, veda casualmente la sua lapide, ancora fresca di sepoltura, e venga da lei misericordiosamente compatito e pianto. La sua morte diviene quindi una specie di espediente per far cadere la donna in un tranello che potrà renderla più accessibile:

Tempo verrà anchor forse

ch’a l’usato soggiorno

torni la fera bella et mansueta,

et là ‘v’ella mi scorse

nel benedetto giorno,

volga la vista disiosa et lieta,

cercandomi: et, o pieta!,

già terra in fra le pietre

vedendo, Amor l’inspiri

in guisa che sospiri

sì dolcemente che mercè m’impetre,

et faccia forza al cielo,

asciugandosi gli occhi col bel velo. (Idem, v. 27-39)

Parafrasi: Forse giungerà ancora un tempo in cui Laura tornerà da me nello stesso modo in cui ero abituato a vederla, fiera ed allo stesso tempo bella e mansueta, e -con l’intento di cercarmi- volga la vista, lieta e desiderosa, verso quello stesso luogo (la chiesa di Santa Chiara) in cui mi vide la prima volta, in quel benedetto giorno (Venerdi Santo): e, oh misericordia! Che l’Amore la commuova, vedendo terra fra le pietre (poichè la sepoltura si è svolta da poco) in modo tale che emetta sospiri, e così dolcemente da chiedermi perdono e faccia forza al Cielo (per la salvezza della mia anima) asciugandosi gli occhi col suo bel velo.

A questa Laura immaginaria, piangente sul sepolcro, nella strofa successiva subentra improvvisamente e nuovamente la Laura spensierata, accarezzata da una pioggia di fiori, che cade su di lei con le più graziose e lodevoli attitudini, fino a vincere la sua ritrosia ed a renderla ‘humile‘ (v. 43). Sembra quasi che i fiori abbiano giudizio, che sappiano dove debbano posarsi per esaltare la bellezza della donna, ma anche per non suscitare il suo imbarazzato rossore. Tale arcadico quadro mitiga nuovamente la tristezza del poeta grazie ad una nota di movimentata giocondità, che viene creata dalle metafore e dalla scorrevolezza del verso:

Da’ be’ rami scendea

(dolce ne la memoria)

una pioggia di fior’ sovra ‘l suo grembo;

et ella si sedea

humile in tanta gloria,

coverta già de l’amoroso nembo.

Qual fiore cadea sul lembo,

qual su le treccie bionde,

ch’oro forbito et perle

eran quel dì a vederle;

qual si posava in terra, et qual su l’onde;

qual con un vago errore

girando parea dir: Qui regna Amore.  (Idem, v. 39-51)

Parafrasi: Dai bei rami cadeva (com’è dolce ricordarlo) una pioggia di fiori che si posavano sul suo grembo; e lei rimaneva umilmente seduta dinanzi a tanta gloria (della stagione estiva), già offuscata da un’amorosa nuvola. Alcuni fiori cadevano sul lembo della sua gonna, altri sulle sue trecce bionde, che quel giorno erano adornate con perle ed oro lavorato, alcuni fiori si posavano in terra, altri nell’acqua, alcuni più sbadati, sbagliandosi (ovvero posandosi su parti del corpo meno opportune)  si giravano e sembravano dire: Qui regna Amore.

Immerso com’è nel suo sogno ad occhi aperti, il poeta non si rammenta nemmeno come sia giunto in quel luogo. Tuttavia, il fatto di dover affrontare sua solita quotidiana realtà non lo fa sprofondare nella malinconia, poichè le immagini risvegliate nella sua memoria hanno avuto su di lui un duraturo potere terapeutico :

Da indi in qua mi piace

questa herba sì, ch’altrove non o’ pace. (Idem, v.64-65)

Parafrasi: D’ adesso in poi mi troverò cosi bene in questo luogo erboso, che altrove non riuscirò più ad adattarmi ed a trovare pace.

Dolore

In uno stato dormiente di passioni, la sventura diviene una crisi salutare che ritempra le capacità poetiche, nonchè un accrescimento di forza. La morte di Laura pone, in un certo senso, fine a quelle situazioni che hanno reso il suo amore un costante equivoco, poichè non giunge mai ad una dichiarazione o ad una soluzione finale. Nel primo tumulto del dolore, l’affranto poeta compone un sonetto che è un gemito, il sonetto degli “oimè“.  Le immagini della vita di Laura tornano, ma accompagnate da un irrimediabile tempo al passato e intramezzate dagli “oimè“, espressione legata a un sentimento di irrecuperabile perdita:

Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo,

oimè il leggiadro portamento altero;

oimè il parlar ch’ogni aspro ingegno et fero

facevi umile, et ogni homo vil gagliardo! (Son. CCLXVII, v. 1-4)

Parafrasi: Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo, oimè il leggiadro e regale portamento, oimè il modo di parlare con cui addolcivi ogni ingegno aspro e fiero, e sempre col tuo parlare riuscivi invece a rendere orgoglioso un uomo vile.

Il poeta continua l’inventario dei tratti perduti di Laura parlando del “dolce riso” e della sua “alma real, dignissima d’impero“. Nelle ultime due terzine, lungi dal crollare in un esausto stato di impotenza, il poeta riesce ancora una volta ad offrire al suo dolore un sapore non tragico, ma elegiaco. Il verbo al presente rivivifica in lui l’amore per Laura, per la quale convien che lui “arda” e “respire“. L’ultima frase, infine, “ma il vento ne portava le parole“, crea, anche attraverso l’uso dell’ imperfetto, un senso di vaghezza e di indefinitezza dal carattere estremamente lirico, dando quasi l’impressione di dissolvere i confini fra la vita e la morte.

Il poeta apre il sonetto “Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena” felicemente, sentendosi come colui che si tuffa nei suoi ricordi, rivivendo la tenerezza delle prime impressioni.I versi iniziali sono un vero e proprio elogio alla natura che si risveglia, un inno alla rinascita ed alla fecondità:

Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena,

e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,

et garrir Progne et pianger Philomena,

et primavera candida et vermiglia.

 

Ridono i prati, e ‘l ciel si rasserena;

Giove s’allegra di mirar sua figlia;

l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;

ogni animal d’amar si riconsiglia. (Son.CCCX, v. 1-8)

Parafrasi: Zefiro ritorna e riporta il bel tempo con i fiori e l’erba, la sua dolce famiglia, e poi garrisce la rondine  (Progne), e canta l’usignolo (Filomena). Giunge con lui anche la primavera limpida e dai colori vividi. I prati ridono, il cielo si rasserena; Giove si rallegra di vedere sua figlia (Venere); l’aria, l’acqua e la terra sono piene di amore ed ogni essere vivente si ripromette di amare.
Nota:  Progne e Filomena erano due sorelle mitologiche, figlie del re di Atene,  che vennero trasformate rispettivamente in rondine ed in usignolo da Zeus, poichè si vendicarono orribilmente del re di Tracia  Tereo  (marito di Progne)  il quale verrà invece trasformato in upupa per aver abusato di Filomena. 

Il poeta confronta il suo destino con quello della natura,  e quest’ultima risulta arida, perchè se n’è andata via con la morte di Laura:

Ma per me, lasso, tornano i più gravi

sospiri, che del cor profondo tragge

quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;

 

et cantar augelletti, et fiorir piagge,

e ‘n belle donne honeste atti soavi

sono un deserto, et fere aspre et selvagge. (Idem, v. 9-14)

Parafrasi : Ma per me, infelice, tornano i più dolorosi tormenti, che dal profondo del cuore trae colei che al cielo se ne portò le chiavi; il canto degli uccellini, il fiorire dei prati, i delicati gesti di donne belle e rispettabili sono (per me) una terra arida, sono come belve crudeli e selvagge.

Questo desiderio di relazionarsi alla natura viene espresso anche dal sonetto del “rosignuolo”. Nel dolore dell’usignolo, nel suo canto malinconico, il poeta sente il suo stesso dolore. L’allitterazione della consonante ‘m’, che sembra creare un senso di piacevole musicalità, alla fine raggela il lettore con la parola ‘Morte’, che viene scritta con la lettera maiuscola forse per indicarne lo sconcertante potere sul Tutto:

Quel rosignuol, che sì soave piagne

forse i suoi figli, o sua cara consorte,

di dolcezza empie il cielo et le campagne

con tante note sì pietose et scorte,

 

et tutta notte par che m’accompagne,

et mi rammente la mia dura sorte:

ch’altri che me non o’ di ch’i’ mi lagne,

che’ ‘n dee non credev’io che regnasse Morte. (Son. CCCXI, v.1-8)

Parafrasi: Quell’usignolo, che piange con tanta soavità forse la sua prole, o la sua cara compagna del destino, riempie di dolcezza il cielo e le campagne con suoni così belli ed intonati da suscitare un senso di compassione, e sembra che mi accompagni per tutta la notte, ricordandomi la mia dura sorte: a parte me stesso, non ho altri con cui prendermela, poichè non credevo che la Morte potesse regnare anche su una dea (non pensavo quindi che anche Laura fosse mortale).

Il poeta, in questo sonetto, si rende conto di essersi ingannato, di aver creduto Laura immune dalla decomposizione del corpo:

O che lieve è inganar chi s’assecura!

Que’ duo bei lumi assai più che’l sol chiari

chi pensò mai far terra oscura?

 

Or cognosco io che mia fera ventura

vuol che vivendo et lagrimando impari

come nulla qua già diletta e dura. (idem, v. 9-14)

Parafrasi: Oh, come è facile ingannare chi si fida! Chi mai pensò di vedere quei due begli occhi, ancora più lucenti del sole, rendere la terra oscura? Ora mi rendo conto che la mia malaugurata sorte vuole che io,  vivendo e soffrendo, impari come quaggiù sulla terra tutto quel che è caro sia destinato a finire.

Il poeta si accorge che tutto è perituro, e che nemmeno Laura è immune dalle leggi del tempo. Tuttavia, paradossalmente, proprio nel momento in cui Petrarca si rende conto che la donna che ama non è una dea, ma una creatura qualsiasi, quest’ultima acquista un senso, comincia veramente a vivere.   Liberata dalle contingenze che la rendevano un tantino ovvia, un’immagine formale, Laura diviene un essere libero nel suo innalzarsi verso il Cielo, ma nello stesso tempo rimane ancorata alla terra per via dei ricordi che lascia, e che non possono cancellarsi con un colpo di spugna :

Dormit’ai, bella donna, un breve  sonno:

or se’ svegliata fra li spirti electi,

ove nel suo factor l’alma si interna;

 

et se mie rime alcuna cosa ponno,

consecrata fra i nobili intellecti

fia del tuo nome qui memoria eterna.(Son. CCCXXVII, v. 9-14 )

Parafrasi: Dormito hai, bella donna, un breve sonno: ora ti sei svegliata fra gli spiriti eletti, la cui anima si ricongiunge a Dio; e se i miei versi possono fare qualcosa, sii tu consacrata fra i nobili intelletti, sia del tuo nome su questa terra eterna memoria.

Petrarca cerca di staccarsi dalle circostanze terrene, dal suo “viver lasso” nelle “horribili onde” dell’esistenza perchè vuole raggiungere Laura in Cielo, cosicchè possano stare insieme anche in una dimensione per lui ancora poco nota, sconosciuta:

Piacciale al mio passar esser accorta,

ch’e’ presso omai; siami a l’incontro, et quale

ella è nel cielo a sè  mi tiri et chiame.(Son. CCCXXXIII, v. 12-14 )

Parafrasi: Spero che stia attenta e che si accorga quando giungerò in Cielo, perchè non è così lontano quel giorno, in cui ci ritroveremo, e siccome potrebbe anche verificarsi l’ipotesi che io non la riconosca in questa sua nuova foggia, sia lei a chiamarmi e ad attirami dalla sua parte.

Tuttavia, separarsi dal bel corpo dell’amata, investendo in una nuova vita celeste tutte le sue energie, finisce per rivelarsi un tentativo vano, illusorio. In particolar modo, diviene molto arduo separarsi dallo sguardo dell’amata, impresso nel ricordo dell’ultima volta in cui lo vide:

Li occhi belli, or in ciel chiari et felici

del lume onde salute et vita piove,

lasciando i miei qui miseri et mendici,

 

dicean lor con faville honeste et nove:

– Rimanetevi in pace, o cari amici,

Qui mai più no, ma rivedrenne altrove. (Son. CCCXXVIII, v. 9-14)

Pararasi: Gli occhi belli (di Laura), ora in cielo chiari e felici della luce da cui deriva salute e vita, lasciando i miei qui, sulla terra, miseri e mendaci, dicevano (ai miei occhi) con parole oneste e nuove: -Rimanete in pace, cari amici, poichè sulla terra non ci incontreremo più, ma senza dubbio ci rivedremo altrove, nell’aldilà.

Il passato morde ancora con rabbia, ed è difficile per il poeta obliarlo, non cercare più Laura in terra, staccarsi dalla nozione temporale della sua morte dopo essersi illuso di incontrarla:

Talor risponde, e talor non fa motto.

I’ com’ huom ch’erra, et poi più dritto estima,

dico a mente mia:  – Tu se’ ‘ngannata.

 

Sai che ‘n mille trecento quarantotto,

il dì sesto d’aprile, in l’ora prima,

dal corpo uscio quell’anima beata.(Son. CCCXXXVI, v. 9-14)

Parafrasi: A volte risponde, ed a volte non pronuncia parola. Io, come un uomo che sbaglia, e che poi ritrova la retta via, dico a me stesso: – Ti sei ingannato.  Tu sai che quel giorno (il sei aprile del 1348) dal corpo uscì quell’anima beata.

Senza Laura è vedovo il mondo:

Pianger l’aer et la terra e’l mar devrebbe

l’uman legnaggio, che senz’ella è quasi

senza fior prato, o senza gemma anello. (Son. CCCXXXVIII, v. 9-11)

Parafrasi: L’intera umanità dovrebbe piangere l’aria, la terra ed il mare, poichè senza di lei ogni prato è senza fiore, ed ogni anello è senza gemma.

Riferendosi alle pietre preziose, il poeta dimostra di sentirne la mancanza anche nei suoi aspetti più frivoli. Il Cielo diviene quindi una sorta di rivale, che gli ha rubato Laura e che gode della sua malasorte:

Non la conobbe il mondo mentre l’ebbe:

conobbil’io, ch’a pianger qui rimasi,

e ‘l ciel, che del mio pianto or si fa bello. (idem, v. 12-14)

Parafrasi: Non la conobbe il mondo mentre era in vita, io solo la conobbi, che a piangerla sono qui rimasto, ed il cielo, che ora del mio pianto si rallegra.

Il Cielo è nemico ma diventa anche l’ unico luogo in cui il poeta può ritrovare Laura, che è ancora dentro di lui come uno strale. Per questo, come se avvenisse una sorta di compromesso, non è Petrarca a raggiungere Laura, ma è quest’ultima che scende in terra per misericordiosamente consolarlo:

Ma chi nè prima simil nè seconda

ebbe al suo tempo, al lecto in ch’io languisco

vien tal ch’a pena a rimirar l’ardisco,

et pietosa s’asside in su la sponda.

Con quella man che tanto desiai,

m’asciuga gli occhi, et col suo dir m’apporta

dolcezza ch’uom mortal non senti’ mai.

 

<Che val -dice- a saver, chi si sconforta?

Non pianger più: non m’ hai tu pianto assai?

ch’or fostu’ vivo, com’io non son morta!>. (Son.CCCXLII, v. 9-14)

Parafrasi: Ma poichè non c’è mai stata nessuna (nel mio cuore) che la uguagliasse o la superasse, nel letto in cui sto soffrendo giunge proprio colei che a mala pena oso guardare, e pietosa si siede al mio capezzale. Con quella mano che tanto desiderai, mi asciuga gli occhi, e con le sue parole mi arreca una dolcezza che nessun uomo mortale sentì prima d’ora. <A che cosa serve-dice- sconfortarsi in questo modo? Non piangere più: non hai già pianto abbastanza a causa mia? Magari tu fossi vivo ora, nello stesso modo in cui io non sono morta (magari potessi anche tu vivere la mia stessa situazione di beatitudine in Cielo).

Mai come ora, in forma di puro spirito, Laura appare donna, umana, accessibile. E mai come ora , Petrarca la descrive con semplicità, senza artificiose galanterie. La donna amata entra finalmente a far parte della sua vita parlandogli, consolandolo con tenerezza. Ed il poeta, a sua volta, rimane uomo fino in fondo, sognandola sulla sponda del suo letto, che gli asciuga gli occhi con la mano, quella mano tanto desiderata. Petrarca non riesce a staccarsi del tutto (come avviene per Dante) dai suoi ricordi. Quella che vede è una nuova Laura, ma che conserva sempre la memoria dell’antica.

Nel sonetto “Li angeli electi et l’anime beate” Laura è appena arrivata fra gli angeli nel cielo, che si meravigliano di tanto splendore. Tuttavia, ciò che ancora una volta rende Laura veramente bella, è il suo atteggiamento umano, quel voltarsi per vedere se Petrarca la segue, il che ricorda vagamente l’atteggiamento del pagano Orfeo, che si gira per essere certo che Persefone lo stia seguendo non per andare nell’aldilà, ma per tornare insieme sulla terra:

Ella, contenta aver cangiato albergo,

si paragona pur coi più perfecti,

et parte ad or ad or si volge a tergo,

 

mirando s’io la seguo, et par ch’aspecti:

ond’io voglie et pensier’ tutti al ciel ergo

perch’i’ l ‘odo pregar pur ch’i’ m’affretti. (Son. CCCXLVI, v. 9-14)

Lei, contenta di aver cambiato dimora, si trova ora fra le anime più eccelse (con le quali potrebbe perfino competere) ed ogni tanto si volge indietro, per vedere se la seguo, e sembra che mi stia aspettando: per questo desideri e pensieri tutti al cielo rivolgo, perchè la sento pregare per me, affinchè la mia anima raggiunga presto la redenzione.

Anche nella canzone “Quando il soave mio fido conforto” emerge la difficoltà del poeta nello staccarsi dalla bellezza terrena di Laura, la quale scende in terra per asciugare il suo volto con le mani sospirando dolcemente, ed adirandosi “con parole che i sassi romper ponno“. Inoltre, Laura trae “un ramoscel di palma et un di lauro” “del suo bel seno“, e dice al poeta che sa della sua disperazione perchè le sue “triste onde del pianto“, giungono al cielo e turbano la sua pace. Il poeta non riesce a capacitarsi che Laura sia giunta “a miglior vita“, e di conseguenza non riesce ad amarla come puro spirito. Rimpiange di non essere morto “al latte et a la culla“, “per non provar de l’amorose tempre“.  Le domanda:

” Son questi i capei biondi, et l’aureo nodo

ch’anchor mi stringe, et quei belli occhi che fur mio sol?” (Canz. CCCLIX, v. 56-58)

Sono ancora questi i capelli biondi, ed la dorata treccia che ancora mi stringe il cuore a ricordarla, e quegli occhi belli che furono il mio sole?

Al che Laura risponde, usando anche espressioni che sono legate alla sua esperienza terrena, come ‘spirito ignudo‘ (invece di spirito puro, libero dal corpo) o ‘selvaggia et pia‘ (dove il primo aggettivo rammenta il suo connubio con la natura). Soltanto vedendola rivestita del suo corpo mortale, e con quello stesso identico variabile carattere che gli procurava sofferenza, il poeta riesce a consolarsi, a riconoscere la sua Laura. E la donna, a sua volta, conserva quell’elemento di femminilità che la rende lieta di poter usare ancora la sua bellezza, il suo “bel velo”, per essere cara al poeta, e spingerlo sulla retta via. Il corpo, quindi, compare in questa circostanza come l’unico mezzo per avviarsi verso un cammino di redenzione:

<…> “Non errar con li sciocchi,

nè parlar-dice-o creder a lor modo.

Spirito ignudo sono, e ‘n ciel mi godo:

quel che tu cerchi è terra, già molt’anni,

ma per trarti d’affanni

m’è dato a parer tale; et anchor quella

sarò, più che mai bella,

a te più cara, selvaggia et pia

salvando insieme tua salute et mia” (idem, v. 58-71)

“Non sbagliare come fanno gli sciocchi e non parlare- dice- o credere come fanno loro. Sono un puro spirito, ed in cielo sono felice: quello che tu cerchi è ormai polvere, e da molto tempo, ma per alleviarti dal dolore posso ripresentarmi a te con le mie mortali spoglie; e sarò ancora la stessa, più che mai bella,  e nel modo che a te è più caro, a volte crudele ed a volte pia (come avveniva quando ero viva) e solo in questo modo potrò salvare sia la mia che la tua anima”.

Nutrito ed incoraggiato da Laura stessa, il poeta deve tuttavia dimenticarla, liquidando il suo trascorso amore come un qualcosa contrario alla virtù.  Petrarca deve, in altre parole, staccarsi dalle emozioni terrene e soggettive. La canzone dedicata alla Vergine (CCCLXVI) è una sorta di litania, un tentativo di spaziare nei cieli. La Vergine è ricoperta di epiteti, che a volte sfiorano l’artificioso,  come “fenestra del ciel lucente altera” (v.31) , “d’ ogni fedel nocchiero fidata guida” (v.68), ma non è invocata da un uomo già purificato, che si trova nella fase finale del suo cammino verso la salvezza, come avviene nella Divina Commedia dantesca. Qui il percorso è solo all’inizio, ed il poeta chiede alla Vergine di  soccorrere “a la <sua> guerra” (v.12). Il poeta usa quindi, in questo frangente, un termine che riassume l’affanno delle sue passioni terrene. La Vergine è “refrigerio al cieco ardor ch’avampa” (v.20), il che dimostra che il poeta si volge a lei per essere protetto dai suoi più intensi e vivi desideri. Egli si sente ancora “qui“, “fra i mortali sciocchi” (v.21) , in un “dubio stato” (v.25), e spera soltanto che la sua “torta via” (v.65) sia drizzata a dovere. Si sente solo, “senza governo” (v.70) come in una tempesta, e si rivolge alla sua anima chiamandola”peccatrice”. Il poeta,ancora immerso nelle sue circostanze terrene, parla alla Vergine, ma senza omettere di menzionare il luogo in cui nacque, “in su la riva d’Arno” (v.82) , e di aggiungere, come se fosse in una nuova selva oscura:  “mortal bellezza, atti et parole m’anno / tutta ingombrata l’alma” (85-86).

Anche se non più giovane, Petrarca non riesce a staccarsi da un passato che è ancora bruciante dentro di lui. Si sforza di etichettare Laura come una mitologica “Medusa” (v. 111)  dallo sguardo pietrificante, e spera di poter piangere per l’ultima volta con devozione e senza essere contaminato dal fango (“terrestro limo”, v.116) delle sue inquietudini amorose. Nella domanda che segue, stranamente, non è Laura ad elevarsi, ma è la Vergine che diventa “cosa gentile”, come se prendesse il posto della donna idealizzata:

Che se poca mortal terra caduca

amar con sì mirabil fede soglio,

che devrò far di te, cosa gentile?   (Canz. CCCLXVI, v. 121-123)

Parafrasi: Se amo così tanto soltanto un po’ di terra mortale, destinata a perire (Laura),  quanto dovrei allora amare te, essere gentile?

Il poeta non riesce, dunque, in questa canzone, ad obliare del tutto Laura, ma soltanto a mutare la sua prospettiva, cercando di etichettarla come un qualcosa diametralmente opposto alla sua salvezza. Non potendo vedere la donna amata  come pura essenza, il poeta vorrebbe dunque liquidarla come risultato di un passato errato. Il cammino di redenzione del poeta è comunque appena iniziato ed il Canzoniere si concluderà proprio a questo punto. La sublimazione del suo amore terreno avverrà successivamente, nel poemetto didattico-allegorico dei  Trionfi, rimasto incompiuto per via della morte del poeta, avvenuta nel 1374.  Tuttavia la sua immaginazione, senza la sua Laura viva e mortale, non potrà che risultare meccanicamente forzata, poichè avrà perso la sua più intrinseca motivazione.

Chiedo venia qualora le parafrasi possano dare adito a diverse interpretazioni, sulle quali tuttavia sono a volte discordanti anche i più autorevoli critici.

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