Ebrei contro il Sionismo. Non in mio nome

Pubblicato il 8 Lug 2013 - 6:00pm di Redazione

Storie di ebrei contro il Sionismo e l’occupazione israeliana

Se noi accettiamo il sionismo oggi, se noi accettiamo l’apartheid del sionismo oggi, legittimiamo qualsiasi altro paese a mettere su strutture d’apartheid. Questo non è possibile e non è possibile soprattutto per gli ebrei, perché prima o poi saranno loro a pagare il conto dell’apartheid, saranno loro i discriminati. La battaglia contro il sionismo è una battaglia di dimensioni culturali mondiali, per tutti, ma soprattutto per gli ebrei, che si comportano proprio come nazisti nei riguardi dei palestinesi e che ne pagheranno il conto. Oggi le ondate di antisemitismo nascono per gli effetti della politica israeliana”.

SionismoCombattere il sionismo e l’occupazione israeliana dei territori palestinesi non è più solo una questione di orientamento politico, interessi internazionali o di carattere umanitario. Riguarda anche, come asserito da Marco Ramazzotti, ebreo romano che appoggia la causa palestinese, gli ebrei.  Dalla nascita dello stato di Israele l’analogia antisionismo-antisemitismo ha impedito alla comunità internazionale e in particolare all’Europa, ancora vittima di un senso di colpa post Shoah, di spendersi a favore dei palestinesi. Inoltre, lo spauracchio dell’antisemitismo viene utilizzato in maniera strumentale dallo stato di Israele e dai media occidentali per giustificare politiche che contravvengono al diritto internazionale.

L’opinione degli ebrei contro l’occupazione assume una valenza maggiore proprio perché svincolata dalle accuse che solitamente vengono rivolte a chi si schiera in favore della Palestina.

Perché un ebreo come me interviene? Perché a me l’accusa di antisemitismo non me la possono fare. Sono semita. Sono ebreo. Quindi non posso essere antisemita”. Gli ebrei che la pensano come Marco Ramazzotti sono sempre più numerosi.  Molte anche le associazioni sorte per sensibilizzare la società civile israeliana sulla realtà dell’occupazione:  Gruppo Martin Buber, Jewish Voice for Peace, Anarchist Aganist the Wall, Refusenik, Israeli League for Human and Civil Right.

Di ebrei che si distaccano e oppongono alla politica israeliana ce ne sono in quasi ogni paese occidentale. Non è una cosa così particolare”, ci spiega Simona Sermoneta, membro dell’associazione Rete-Eco Ebrei contro l’Occupazione,  nata nel 2001 e diffusa in Italia a livello nazionale. “Accomunati dall’impegno per l’eguaglianza, i diritti umani e la pace quali principi universali, riteniamo che le numerose e continue violazioni di tali principi da parte dei governi israeliani vadano condannate apertamente e con forza; ed è la falsa accusa di antisemitismo, spesso rivolta da Israele e dai suoi sostenitori come tattica di intimidazione contro chiunque critichi le politiche israeliane o il sionismo, che ci spinge ad alzare la nostra voce di dissenso, identificandoci come ebrei”. Queste le motivazioni che portano i membri di Eco a mobilitarsi contro le ingiustizie perpetrate nei confronti della popolazione palestinese.

Nonostante questo fermento anti-occupazione esista anche in Israele, rimane comunque residuale all’interno della società. Le ragioni sono molteplici e vanno ricercate in primo luogo nel sistema educativo.

Ho avuto modo di vedere come si plasma la mente di un israeliano tipico. Come mai, alla fine, uno cresca formandosi in un contesto dove non si conosce l’altro”, racconta Simona. “I nomi delle vie e delle strade ti suggeriscono il rispetto verso personaggi che non dovresti rispettare. La narrazione storica che ti viene proposta a scuola è una narrazione faziosa e tutte queste cose sommate insieme fanno si che tu l’altro, alla fine, nemmeno lo veda. Quando ti passa davanti hai già in mente tutte le scuse pronte per impedirti di capire quello che è stato e quello che sta succedendo. Il che è, in un certo senso, anche una trappola per se stessi. Secondo l’Istituto israeliano di statistica, nel 2003, il 79% della popolazione ebraica adulta in Israele non conosce affatto la lingua araba. Me compresa… Questo è grave e pericoloso, perché comporta ulteriori paure e incomprensioni. A scuola tutti – insegnanti e alunni – erano israeliani ebrei e laici. La scuola israeliana, infatti, è divisa tra i vari settori della popolazione – ebraico laico, ebraico religioso-nazionalista, ebraico ultraortodosso, arabo – in modo che le scuole siano quasi tutte omogenee. Non si ha modo di incontrare l’altro. Le tecniche di suggestione sono state perfezionate negli ultimi anni. Oggi moltissimi ragazzi fanno un viaggio con la scuola ad Auschwitz, in Polonia. Visitano il luogo dello sterminio per antonomasia, avvolti da bandiere israeliane protettrici. Tornano profondamente scossi e fortemente convinti. La sacrosanta memoria delle persecuzioni e della Shoah– che ha colpito anche la mia stessa famiglia in Italia, e che ha pressoché sterminato la famiglia di mio marito in Polonia – viene così strumentalizzata per provocare una paura atavica della vita al di fuori di Israele, spingendo la gente ad ingrossare le file di un movimento politico, il sionismo, e ad alimentare le statistiche demografiche di Israele”.

Un altro metodo per “educare” la società israeliana sono i tre anni di servizio militare obbligatorio. Simona l’ha fatto: “Non me ne vanto, ma era normale. Tu fai le elementari, poi fai le medie, poi il liceo e poi fai l’esercito. Quando sei diciottenne e ti hanno martellato così tutta la vita, che vuoi capire? Niente. Non capivo assolutamente niente. Ad esempio: perché non ti fanno fare il servizio militare quando c’hai trent’anni? Perché non ti vogliono dare il tempo di riflettere. Poi c’è un’altra cosa: un elemento potentissimo della propaganda nei confronti degli israeliani è la paura. Paura giustificata, in un certo senso, ma fino a un certo punto. Oltre è manipolazione. E questa la inculcano molto forte. La celebrazione della giornata della memoria in Israele è volta proprio a farti giungere alla conclusione che lo stato e l’esercito israeliano siano l’unica cosa che sta tra te e il prossimo sterminio. Lo fanno in un modo molto abile. Non solo la paura del prossimo sterminio ma anche la paura del mondo arabo, anche questa molto enfatizzata”.

Anche Marco rintraccia nella paura uno degli aspetti caratterizzanti del sistema-Israele: “Io so benissimo perché uno diventa sionista: è la paura delle persecuzioni Ma la paura delle persecuzioni non è qualcosa che realizzi in un certo momento della vita. Se sei ebreo nasci con questa paura. Guardi i film sull’olocausto e pensi: potrei essere io la dentro. Io non guardo i film sulle persecuzioni ebraiche, per me significa stare male. Ma oggi siamo nella condizione di vedere in quella gente, nei campi di concentramento, i palestinesi. E allora io che faccio? È chiaro che il mio atteggiamento non può che essere diverso da quello di chiunque altro. Io devo difendere i palestinesi. Questo è il mio lavoro, non poso farne a meno. Non devo farne a meno perché io sono la causa dei loro problemi”.

Per sentirsi causa del problema bisogna prima prendere coscienza del problema. Questo processo non è uguale per tutti. Maya, italo-israeliana, nata e vissuta a Roma ma con dei forti legami con Israele, dove vivono molti suoi famigliari, fa parte di gruppi pro palestinesi dall’età di 15 anni. “Sono stata contraria alle dinamiche dell’occupazione da sempre, dall’età della ragione, grazie a mia madre. Poi c’è stato un episodio, circa tre anni fa, mio zio è morto in un attentato, questo fatto all’interno della famiglia ha cambiato un po’ le cose. Ma io non ho cambiato opinione. Con i miei parenti qualche problema c’è stato. Sanno la mia posizione ma non sono d’accordo. Quando ti muore una persona vicina, in qualche modo, perdi la fiducia nel processo di pace. Purtroppo ti cambia la vita e non in meglio perché diventi molto più diffidente. Quando una cosa come questa ti arriva proprio dentro casa ti rendi conto che il problema c’è e là prende piede la parte peggiore. Il conflitto è talmente tanto continuo che è diventato una cosa normale. Il fatto che ti controllino in continuazione, a noi sembra sicurezza ossessiva, per loro è normale come timbrare il biglietto dell’autobus. Non pensano di vivere in uno stato di assedio, è parte della loro identità”.

Per Simona è diverso, lei ha vissuto gran parte della sua vita in Israele: “Finché sei bambino sei abbastanza protetto: noi siamo sempre i bravi e loro sono sempre i cattivi. Però poi da grande arrivi a dire no, qui c’è qualcosa di più profondo che non mi sta bene. All’università incominci a incontrare qualche compagno palestinese e a chiacchierarci, allora ti dice delle cose che sembrano fuori dal mondo. Inizialmente  pensi: no, no, no, questo qui è fuori di testa, non capisce niente, ma come può essere, ma che dice? Però le gocce continuano a gocciolare. Da dopo gli anni ’80, se non sbaglio, per legge si poterono aprire gli archivi relativi al periodo della Nakba e  alcuni storici hanno iniziato a dare delle letture della storia che non combaciavano affatto con la versione ufficiale. E allora cominciai realmente a prendere posizione, perché a quel punto avevo anche la conferma di chi aveva studiato i documenti e ti metteva lo specchio davanti. Come facevi a dire di no? Certo non tutti lo fanno. Il fatto che un israeliano tipico quando gli dici certe cose si chiuda, non ascolti o dica: «questo deve essere razzista o di parte» è perché purtroppo stanno sotto una cappa di manipolazione mentale pesantissima. Io credo veramente che la chiave sia la narrazione. Bisogna trovare il modo di mostrare a queste persone che hanno i paraocchi. Io e mio marito abbiamo scelto di non stare li perché ogni giorno è un grande dolore. Quando ci vivi capisci che è una realtà assurda e immorale e non avevamo tanta voglia di farne parte. Nè avevamo voglia di vedere nostra figlia educata in quel modo da scuole funzionali alla macchina di propaganda. Ogni tanto torniamo a trovare le nostre famiglie, ma non spesso, perché quando andiamo lì ci sentiamo sempre molto male”.

Partecipare alle manifestazioni o far parte di associazioni sono solo alcuni dei modi di reagire. Marco si è spinto oltre salpando con Estelle, nave della Freedom Flotilla, alla volta di Gaza. “Estelle è stata un qualcosa di brillante. Innanzi tutto la barca a vela. È una barca che parte dalla Finlandia e tocca porti in Svezia, Norvegia, Francia, Spagna, Italia e che parla a tutti e che si presenta come una barca europea, come un ottimo esempio di Europa. Estelle è stata una gigantesca presa per i fondelli di questi ridicoli israeliani sionisti. Trenta persone a bordo di una nave di cui 12 chiaramente e nettamente vecchi. Vecchi: dagli 80 anni del canadese ai 65 anni che ho io. Hanno messo in campo 5 navi e 2 elicotteri. Io ho fatto il calcolo: 2000 uomini in mare e 3-400 a terra per 30 persone. Se arrivava una barca con trenta persone in Italia c’erano 2 della guardia costiera disarmati e magari 2 carabinieri che salivano a bordo.  Ridicolo. Ridicoli. E poi i loro interrogatori. Personaggi ridicoli. Avevano i dati di tutti, ero l’unico che non conoscevano a bordo. Quando sono arrivati gli uomini dello Shin Bet non sapevano che fossi ebreo, sono cascati dalle nuvole, è stata una cosa divertentissima. Poi è successa una cosa molto curiosa: mi hanno condannato per tre giorni, ma poi mi hanno liberato subito. Solo dopo ho capito il perché: da lì a due giorni sarebbe arrivato il primo ministro Monti e quindi, evidentemente, non volevano avere l’imbarazzo dell’italiano fermato”.

Essere un ebreo contro l’occupazione mette al riparo dalle accuse di antisemitismo ma non da quelle di essere un “ebreo che odia se stesso”. Ma perché un ebreo dovrebbe arrivare al punto di odiarsi?

C’è chi pensa che siamo traditori”, conclude Simona,  “Io credo, se no non sarei qui, che la motivazione passi per il bollare chi critica come antisemita. Ovviamente tra le voci contro ci sono persone che lo fanno per antisemitismo o perché sono razziste, meglio. Questo, però, non deve assolutamente fermare chi critica perché c’è davvero da criticare. È per questa ragione che noi abbiamo deciso di farci sentire. Lo stato di Israele è il primo a bollare come antisemita chi apre bocca. Gli serve da scudo per infrangere tutte le leggi internazionali possibili e immaginabili. E ripetutamente dice di parlare a nome di tutti gli ebrei, addirittura. Neanche a dire gli ebrei israeliani, no. Mette in mezzo gli ebrei italiani, francesi, australiani, americani dicendo: noi parliamo a nome degli ebrei, creiamo uno stato per gli ebrei. È un po’ frustrante sentire qualcuno dire io parlo a nome tuo, quando dice tante cose che tu non condividi. Purtroppo il megafono ce l’hanno loro, noi possiamo farci sentire un po’ ma magari non troppo”.

di Paco Ichnos e Maria Francesca Licata

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2 Commenti finora. Sentitevi liberi di unirsi a questa conversazione.

  1. FRANCO 10 Luglio 2013 at 15:13 - Reply

    “c’è chi pensa che siamo traditori” ovvio più traditori di così, facile parlare male di Israele vivendo in Italia, solo per fare un esempio,nello statuto di Hamas non si riconosce Israle anzi lo vuole distruggere, io non sono ebreo, ma confermo, VOI SIETE DEI TRADITORI, i nuovi kapò

    • sara 31 Ottobre 2015 at 00:02 - Reply

      Bene da domani allora l’italia non sara più degli Italiani ma apparterrà ad un altro popolo che occupavano queste terre prima dell’impero romano …
      Ma cosa dici, traditori, non penso che siano traditori anzi, usano i sentimenti, il buon senso. In quelle terre deve Esistere Palestina e Israele, tutte e due, due stati 50% del terreno uno e 50% del terreno l’altro. Israele ha commesso molti errori, anche Palestina ne ha commesso ma Israele di più.

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