Palestina: 1,2,3,4 OCCUPATION NO MORE

Pubblicato il 4 Lug 2013 - 8:19pm di Redazione

Resoconto di un viaggio in Palestina

PalestinaLe persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone, scriveva Steinbeck.

Il significato di questa frase non mi è mai stato così chiaro come durante il mio primo viaggio in Palestina. Sapevo a cosa andavo incontro, conoscevo la situazione dell’occupazione, le ingiustizie a cui la popolazione palestinese è sottoposta quotidianamente, ma vederlo con i propri occhi è diverso. Vederlo ti catapulta dentro una realtà ben più dura di quella che immaginavi leggendo libri e articoli.

Il mio viaggio in Palestina è iniziato con enorme entusiasmo. Lo stesso entusiasmo che si è affievolito appena messo piede a Gerusalemme. La bellezza della città è oscurata dalla presenza ingombrante dei militari, dei fucili dormienti sulle spalle dei soldati che si sbattono contro le teste dei bambini palestinesi che giocano per le strade della città vecchia. Entusiasmo completamente sostituito da un fortissimo senso di claustrofobia con la prima vista del muro di “separazione”, se si vuole essere politicamente corretti, o muro dell’apartheid, se si è umanamente coinvolti. L’arrivo a Betlemme è stato questo per me: la vista di un muro grigio e austero dalla parte israeliana, colorato e artistico da quella palestinese. Le scritte e i murales sono solo una delle tante forme di resistenza della popolazione. “Se non lo puoi abbattere cerchi almeno di abbellirlo” ci ha detto una signora cristiana, titolare di un negozietto di souvenir completamente circondato dal muro, mentre ci raccontava dell’impatto psicologico che questa barriera “difensiva” ha avuto sui suoi figli.

La base del nostro campo di volontariato, o meglio campo di attivazione, indignazione e coinvolgimento, aveva base ad Al Mas’ra, piccolo paesino vicino a Betlemme. L’accoglienza è stata in pieno stile Mediterraneo: gli abitanti del paese hanno bussato alle nostre  porte con cibo e dolci, curiosi di conoscere questo nuovo gruppo di stranieri che per qualche giorno avrebbe vissuto la loro realtà. Spesso ci siamo trovati a dover rispondere alla domanda “perché siete qua, qual è lo scopo della vostra presenza?” Loro non riuscivano a capire a pieno il motivo del nostro viaggio, cosa ci spingesse in Palestina invece che nelle spiagge di Tel Aviv. Allora abbiamo provato a spiegare che eravamo lì come osservatori, per riportare tutto ciò che vedevamo ad amici e parenti. E allora ti chiedono “perché? Le persone da voi non sanno cosa succede qui?” No, non lo sanno.

Cerchi di far capire che la maggior parte dei tuoi connazionali non sa cosa succede a casa propria, figurarsi a casa dei vicini. La maggioranza è indifferente, ed è per questo che tu sei lì. Solo? Si, solo.

Ed è a questo punto che quell’enorme entusiasmo iniziale lascia il posto a un assoluto senso di frustrazione. Inizi a capire che sei lì solo come osservatore, che non puoi fare altro che accompagnare il contadino al suo campo circondato da colonie, o far visita a Omar, padre di cinque figli che ha rifiutato le vantaggiose offerte del governo israeliano pur di non cedere un solo centimetro del suo terreno, nel villaggio di al Walajeh. Puoi solo vedere il tunnel di cemento armato che collegherà la sua casa, circondata da un modernissimo filo elettrico, al resto della Cisgiordania; puoi attraversarlo, fotografarlo, indignarti e ammirare Omar più di qualunque persona abbia conosciuto prima di lui. Puoi disegnare cartelli e cantare slogan contro l’occupazione (1,2,3,4, occupation no more) durante le manifestazioni del venerdì, che da anni vedono abitanti dei vari villaggi, attivisti israeliani e internazionali marciare insieme, armati di sorriso e bolle di sapone, contro il posto di blocco dei militari. Puoi fare tutto questo, ma continui a sentirti profondamente inutile. O almeno io mi sentivo così.

Poi arriva il viaggio a Hebron e in questa città, emblema dello status quo, quell’entusiasmo diventato frustrazione si trasforma in rabbia. Vedere la via del mercato, brulicante di voci, visi e colori, ricoperta da una rete che impedisce ai circa 600 coloni, protetti da oltre 2000 soldati, di gettare pietre, bottiglie e qualunque altra cosa possa ferire la dignità ancor prima che il fisico, ti fa realizzare quanto permeante sia l’incomprensione tra questi due popoli. Il ragazzo che ci fa da guida ci porta nella casa di un palestinese, adiacente al mercato. Dal tetto la separazione è ancora più evidente: da una parte le case palestinesi diroccate tra le viuzze anguste del mercato, dall’altra palazzoni nuovi, eleganti, con annesso campo da calcetto per quei bambini “eletti”, ma, a loro volta, pur sempre circondati da filo spinato.

Il paradosso della situazione risulta ancora più evidente una volta varcata la soglia della “ghost town”, città fantasma, dove ormai tutti i negozi palestinesi sono chiusi e dove, in cima ad una collina, gli israeliani banchettano tranquillamente a suon di chitarra. Una scena comune nel nostro immaginario, se non fosse che tra di loro, tra i bambini e i ragazzi che giocano e cantano, ci sono i soldati. Questa immagine, per quanto insignificante possa sembrare, mi ha fatto pensare al perché si riducano a vivere in questo modo, non a subirlo, come i palestinesi, ma a sceglierlo. Sembrano, e sono, animali allo zoo, e come tali li abbiamo fotografati in un momento di vita qualunque. Ed è a questo punto che capisci quanto profondo e radicato sia il problema dell’occupazione e quante le sue vittime.

Quando inizi a pensare di aver un quadro abbastanza completo, arrivi ad Al Mufaquara e a Susya, villaggi di beduini vicino ad Hebron, dove le forze israeliane non consentono agli abitanti di costruirsi nemmeno una tenda e, quando queste vengono tirate su “abusivamente”, ricevono subito l’ordine di demolizione. Risultato: per non abbandonare le proprie terre gli abitanti sono costretti a vivere, a sopravvivere, nelle grotte.

Qui la rabbia cessa e torna l’entusiasmo, non quello iniziale, ma un nuovo entusiasmo dato dall’aver finalmente capito davvero cosa significhi resistere. Ogni singola ora di vita di ogni singolo palestinese in queste terre è resistenza, e tu, nel tuo piccolo ne stai facendo parte. Così tutto lo sconforto provocato dal sentirsi inutile e inerme, lo stesso che provano ogni giorno i palestinesi, si trasforma in forza, in speranza. Arrivi alla consapevolezza che, per quanto difficile e disarmante, non bisogna smettere di lottare, di perseverare, ogni venerdì alle manifestazioni, ogni giorno a lavoro, ricostruendo le case e le moschee distrutte.

Resisti non svendendo il tuo terreno in cambio di una vita più comoda e felice ma meno dignitosa, continuando a sorridere nonostante tutto. Resisti venendo qua, a vedere con i tuoi occhi tutto questo. Resisti tornando, perché sai che non potrai farne a meno.

Arrivata all’ultimo giorno di campo realizzi che la vera domanda non è cosa tu puoi fare per la Palestina, ma cosa la Palestina ha fatto a te.


Info sull'Autore

1 Commento finora. Sentitevi liberi di unirsi a questa conversazione.

Lascia Una Risposta