Anniversario Beppe Fenoglio

Pubblicato il 10 Mag 2013 - 2:48pm di Redazione

Un ricordo di Beppe Fenoglio, a cinquant’anni dalla scomparsa (1963-2013)

La notte di lunedì 18 febbraio 1963 si spegneva nella sua casa di Alba uno degli scrittori più rappresentativi del novecento, Beppe Fenoglio. Qualche giorno prima al fratello, Walter, su un foglietto, poiché impossibilitato a parlare essendo stato tracheotomizzato, comunicò brevemente le sue volontà: «Funerale civile, di ultimo grado, domenica mattina, senza soste, fiori e discorsi». Venne sepolto nel cimitero di Alba, accompagnato da uno stringato discorso di Don Bussi. Alla sobria cerimonia era presente anche Italo Calvino.

Foto Aldo Agnelli autorizzazione Centro Studi Fenoglio

Foto Aldo Agnelli autorizzazione Centro Studi Fenoglio

Alla fine d’aprile dello stesso anno l’editore Garzanti pubblicò “Una storia privata”. Purtroppo, bisogna dirlo, l’opera di Fenoglio si scontrò con l’intellighenzia comunista (Vittorini, Lajolo, Pavese). E lui che comunista non era, nei primi anni cinquanta, patì l’ostracismo ideologico che tante rovine ha lasciato dietro di sé. Solo la grandezza dello scrittore poté opporsi a quella forza annichilente. La sua corazzata letteratura fronteggiò la cavalleria cosacca. La ragione di tanto snobismo? Ebbene, l’epopea partigiana/resistenziale descritta da Fenoglio non rientrava nei sacri canoni dell’ortodossia comunista. Il partigiano di Fenoglio, mostrando tutti i lati umani, la nuda realtà in cui era immerso, le imperfezioni, le debolezze “private” impediva alle superbe ed altisonanti trombe della sinistra di raggiungere la comunistica platea, ma soprattutto oscurava la versione “eroica che ne volevano dare i trombettisti della sinistra. All’inizio de “Il Partigiano Johnny”, Fenoglio scriveva: «Com’è grande un uomo quand’è nella sua normale dimensione umana». Parole intollerabili per le orecchie di coloro che volevano ammantare di sola gloria le gesta dei combattenti rossi, dei liberatori senza macchia, dei semidei che, attraverso il sacrificio di se stessi, non solo avevano fronteggiato il fascismo, ma posto le basi della riscossa sociale.

Tutto questo, però, senza mostrare che la loro azione era passata attraverso le brutalità sul nemico, i cedimenti, le miserie, le disperazioni, le paure, le sconfitte. A “lotta antifascista”, infatti, Fenoglio opponeva la definizione di “guerra civile”, assai più umana e meno celebrativa di quanto intendevano far circolare gli uomini con la “stella rossa” in fronte. Ecco, l’opera di Fenoglio fece lungamente i conti con questa realtà. Pur tuttavia aveva sempre manifestato un grande rispetto (giustamente) per quella parte di combattenti. In uno dei dialoghi presenti in “Il padrone paga male“, il partigiano Oscar afferma: «Non sono comunista e nemmeno lo diventerò; ma se qualcuno, fossi anche tu, si azzardasse a ridere della mia stella rossa, io gli mangio il cuore crudo».

Poi, fu Calvino a sostenerlo. Ma anche Natalia Ginzburg. Con tutta probabilità se alle spalle non ci fossero stati i due difficilmente Elio Vittorini, almeno al principio, avrebbe piegato le proprie perplessità in favore della pubblicazione nei Gettoni einaudiani. Così nel giugno 1952 l’undicesimo Gettone ebbe l’avallo di Vittorini e uscì col titolo de “I ventitré giorni della città di Alba” e non più “Racconti barbari” – in origine il titolo dell’editore – benché nel risvolto se ne facesse cenno: “Fenoglio della sua provincia sa cogliere più ancora che un paesaggio naturale un paesaggio morale […] In un gusto “barbarico” che persiste come gusto di vita […]  Ed è questo sapore “barbaro” a caratterizzare i racconti […] rievocanti episodi partigiani o l’inquietudine dei giovani nel dopoguerra”.

Il libro ebbe successo, malgrado gli attacchi di “comunisti” di cui lo stesso Vittorini mise a parte lo scrittore. Ad agosto 1954 al “piemontese delle colline” sempre l’editore Einaudi pubblicò “La malora”. Racconto lungo che segnò però l’uscita di Fenoglio dall’Einaudi. La causa fu il risvolto editoriale che Vittorini scrisse e che l’autore non gradì. Salvo poi pentirsene ed ammettere più tardi che il suo risentimento fu “infinitamente sciocco”, come chiarì a Calvino nella lettera datata 22 novembre 1960. Oramai, apparteneva alla scuderia dell’editore Garzanti.

A quell’epoca le prime avvisaglie del male si erano già preannunciate. Inizialmente, gli diagnosticarono un forte asma bronchiale.

Il lavoro letterario di Fenoglio procedeva tra ripensamenti, nuove stesure, versioni rimaneggiate. Un lavoro tribolato. Ebbe a confessare: ”Scrivo per un’infinità di motivi. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti”. Per altro le prime stesure in lingua inglese. Per la lingua di Marlowe aveva avuto una fascinazione ben prima della sua attività letteraria (in fondo, era la lingua dell’antifascismo). Ed è su tali basi che si fonda e matura la “lingua narrativa” di Fenoglio. Nel ’56 confidò a Italo Calvino: “Io prima scrivo in inglese e poi traduco in italiano”. Insomma, l’inglese rimescolato con l’italiano e con il dialetto langarolo contava per lui più di quanto lo potesse ridurre a semplice provincialismo qualche critico frettoloso.

Il “fenglese”, così definito da qualcuno, è “una lingua magmatica con cui collaborare creativamente”. Lo scrisse Dante Isella in appendice a “Il partigiano Johnny”. Ed è proprio lì che si incardina, nella storia della guerra civile tra partigiani e repubblichini, la sua “lingua omerica”. La sola possibile a rendere umano ciò che non lo era; a testimoniare un’esperienza di dure privazioni, afflizioni, reticenze, solitudini; a stanare il dolore delle anime, ora dei perdenti ora dei vincitori; a denudare gli uomini dell’una e dell’altra parte; a sostanziare la ferocia della morte per mano assassine o eroiche, sempre sul limite del pensiero di quanto potesse considerarsi eroico o omicida. Ma di tanto e tanto altro negli anni tenebrosi della guerra civile entrava in gioco. Solo per mezzo di una lingua duttile, plasmabile, cretosa era possibile tratteggiare il fosco quadro entro cui s’alternavano coraggio e paura, sole e pioggia, delusioni e speranze, presenze e assenze, roccia e fango, nobiltà e codardia, caldo e gelo, ragione e follia. Avrebbe mai potuto una lingua qualsiasi, o debole o corrente o lineare, narrare ciò che rischiava d’essere rinnegato, risucchiato dall’oblio, banalizzato o, peggio, stravolto dalle meschinità ideologiche? Ed ecco qua un getto di scrittura a renderci parzialmente il “fenglese”: «Passarono davanti alla chiesa, chiusa, nay sigillata, con un’aria amara ed offesa e rivincitaria insieme, as fearfully and hatefully resaenting on her ruddy facade i lontani riflessi del bandierone rosso».

Dell’attività letteraria di Fenoglio ci restano altri capolavori tal quale sono “Primavera di bellezza” e, meglio, “Una questione privata”. Poi il male oscuro a strapparlo alla vita. A nulla valgono le cure, i soggiorni in altura a Bossolasco. Infine, alle Molinette di Torino la crudele e definitiva diagnosi: cancro ai bronchi. Aveva appena 41 anni. Giorni prima, alla figlioletta Margherita aveva scritto: “Ciao per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amato tanto e sa di continuare a essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò sempre, bambina mia adorata e non devi pensare che ti abbia lasciata”.

Fu una perdita dolorosissima per tutti. Forse la letteratura italiana, salvo qualche rarissima eccezione, non annoverò più scrittori eguagliabili a Beppe Fenoglio per la sua “oceanica” visione della realtà, così presente ne “Il partigiano Johnny”. L’avventura umana di Johnny è la nostra – anche senza la guerra di mezzo – con tutte le sue condizioni e contraddizioni a metterci in croce. Ora da lassù, over the rainbow, a guardarci annaspare tra tanto squallore pur senza che intorno aleggi l’asprigno odore della polvere da sparo.

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