Rodotà: “Su di me meschinità”

Pubblicato il 22 Apr 2013 - 3:29pm di Redazione

Intervista a Stefano Rodotà, dopo la contestata elezione di Giorgio Napolitano

RodotàSuccede, purtroppo, di dover disturbare la domenica di un signore come Stefano Rodotà per chiedergli di rispondere ad alcune miserie che sono state scritte sul suo conto in questi giorni di Romanzo Quirinale. Lo si fa con un certo imbarazzo: non solo considerando la sua persona, ma anche tutti gli altri. Tutti quelli che in questi giorni lo hanno riconosciuto come simbolo del rinnovamento.

Professore, si è scritto che per la seconda volta lei e Napolitano vi siete trovati a essere rivali per una presidenza. Ci racconta come andarono le cose nel ’92?

Su quella vicenda non sono mai tornato. E, chiariamo subito, non ha mai provocato frizioni tra me e Giorgio Napolitano: io le questioni politiche non le mescolo con quelle personali. Dopo l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica, Napolitano fu eletto presidente della Camera. In precedenza ero stato designato dal Pds come candidato alla presidenza di Montecitorio, di cui ero vice-presidente. Sono stato impallinato in parte dai franchi tiratori del Pds e soprattutto dal veto di Craxi. Ebbi un incontro con Napolitano, perché i vertici del partito ben si guardavano dal fare chiarezza. Dopo, io ritirai la candidatura e andai a votare per Napolitano. Mi pare tutto chiaro. E poi non è vero, come è stato scritto, che allora lasciai il partito. Mi dimisi semplicemente dalla presidenza del Pds perché ero stato candidato e poi non sostenuto dal partito. C’era una contraddizione. Più tardi presentai le mie dimissioni da deputato, furono ripetutamente respinte. Sono rimasto in parlamento fino alla fine della legislatura . Ho detto no a una successiva candidatura, non per risentimento, ma perché volevo fare altro.

Sabato invece, che è successo?

Sono partito da Reggio Emilia e sono atterrato a Bari dopo le 16. Lì ho saputo che c’era un fatto nuovo, ovvero la candidatura di Napolitano. I giornalisti m’informano della cosa e mi chiedono se intenda ritirarmi: “Apprendo ora di questi nuovi sviluppi, non ho ricevuto nessuna sollecitazione in questo senso, ci sono 1007 grandi elettori e questi voteranno come credono”.

Le hanno rinfacciato di non aver fatto un “gesto di cortesia”.

Ma che vuol dire? Apprendo un fatto dai giornalisti, nessuno – sottolineo, nessuno – mi chiede di ritirarmi. Io non sono in Parlamento, nemmeno potevo discuterne lì. Non avrei certo potuto ritirarmi senza parlare con le persone che avevano proposto e sostenuto il mio nome dalla prima votazione. Non avrei mai sbattuto la porta in faccia al Movimento 5 Stelle o a Sel. La prima cosa che ho detto sul palco di Bari è stata: “Vorrei dare un saluto al rinnovato presidente della Repubblica”. Una dichiarazione istituzionalmente doverosa, io tengo molto alle istituzioni. Questo rilievo mi pare dunque politicamente infondato ed è una critica personale tutto sommato meschina.

Le è stato rimproverato anche di non aver preso in mano il telefono e contattato il Pd.

Ma per quale ragione dovevo chiamarli io? Il mio telefono e la mia email, durante la campagna elettorale, sono stati largamente contattati. Io, che nelle altre campagne elettorali mi ero molto tenuto in disparte, questa volta, vedendo il rischio, sono intervenuto. E poi guardi: il Pd mi aveva chiesto di candidarmi alle ultime europee, come capolista nel Nord-Est. Ho rifiutato, come ho sempre fatto da quando sono uscito dal Parlamento. Poi, me lo aveva chiesto con grandissimo garbo anche Nichi Vendola. Ma non avevo nessun dovere verso di loro. Dovevo forse chiedere il permesso al Pd per accettare la candidatura del Movimento 5 Stelle? Ma siamo pazzi? Loro credono di essere i proprietari delle vite altrui. Devo spiegare perché doveva essere Bersani a chiamarmi? Perché, più o meno responsabilmente, guida un partito e quando si crea una situazione di conflitto tra persone provenienti dallo stesso mondo, è lui che deve prendere l’iniziativa. Sa cosa le dico? Romano Prodi dal Mali mi ha telefonato.

Cosa le ha detto Prodi?

Stefano, mi dispiace che ci troviamo in una situazione di conflitto”. E io gli ho risposto: “Questa telefonata dimostra di quale spessore politico diverso tu sia rispetto agli altri. Per quel che mi riguarda, ho fatto una dichiarazione concordata con i capigruppo del Movimento 5 Stelle le cui ultime parole sono: ‘Per parte mia non sarò d’ostacolo qualora il Movimento voglia prendere in considerazioni soluzioni diverse’”.

Resta l’inspiegabile fatto che gli uomini del Pd si aspettavano che lei li chiamasse.

Quando hanno bisogno di me si fanno vivi, quando invece io assumo un ruolo rispetto al quale loro dovrebbero esprimersi, scompaiono.

Eugenio Scalfari ha scritto su Repubblica che il suo nome proprio non gli era venuto in mente. Eppure a giugno dell’anno scorso (precisamente il 2, festa della Repubblica, sic) il nostro giornale la intervistò perché proprio Scalfari aveva parlato di lei per una lista di intellettuali che facessero da “stampella” al Pd.

Sono rimasto molto sorpreso. Ho trovato l’attacco di Scalfari inutilmente aggressivo e del tutto infondato per quanto riguarda i dati di fatto. E il complessivo significato politico di quello che è avvenuto.

Ultima: nessuno ha spiegato perché il Pd non ha voluto convergere sul suo nome.

Chissà. Forse avevano già definito una strategia che poi si è rivelata rovinosa: io ero probabilmente in rotta di collisione.

Silvia Truzzi

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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