Israele e Palestina: negoziati alla deriva

Pubblicato il 15 Apr 2014 - 3:22pm di Irene Masala

La prevedibile agonia dei colloqui di pace tra Israele e Palestina e la richiesta di Abu Mazen di aderire a 15 agenzie delle Nazioni Unite

Israele

L’ultimo incontro tra i capi negoziatori Tzipi Livni, per Israele, e Saeb Erekat, per la Palestina, ha confermato l’unico esito prevedibile: questa pace non s’ha da fare. Il vertice, a cui ha assistito anche Martin Indyk, mediatore americano, è durato 9 ore e ha visto la presentazione di nuove richieste da parte palestinese, dopo che Israele non ha rispettato il rilascio dell’ultima parte di prigionieri e lo stop alla costruzione di nuove unità abitative. I punti cardine delle  condizioni palestinesi sarebbero il rilascio di altri 1200 prigionieri palestinesi, il riconoscimento dello stato palestinese all’interno dei confini del 1967, con capitale Gerusalemme Est e la fine del blocco israeliano-egiziano sulla Striscia di Gaza.

Condizioni che toccano alcuni dei punti più scottanti nei rapporti tra le due parti e che difficilmente saranno accettate dalla controparte, sopratutto in seguito alla decisione del premier israeliano di interrompere qualunque tipo di cooperazione e comunicazione con l’Anp. Secondo Netanyahu la parte palestinese avrebbe compiuto una “grave violazione degli accordi dietro al processo di pace”, presentando la richiesta formale di adesione a 15 organizzazioni delle Nazioni Unite tra cui il Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici e sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, la Convenzione Internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e sulla Prevenzione e la Punizione dei Crimini di Genocidio, oltre alla Convenzione di Vienna sulle relazioni Diplomatiche.

La possibilità di accesso ai trattati internazionali è stata acquisita dalla Palestina in seguito al suo riconoscimento, nel novembre del 2012, come Stato Osservatore non membro dell’Onu. Le richieste di adesione erano state invece posticipate dai vertici dell’Anp in cambio del rilascio di 104 prigionieri pre-Oslo da parte di Israele. E pare sia stato proprio il mancato rilascio, il 29 marzo 2014, dell’ultima tranche di detenuti a spingere Abu Mazen a non posporre ulteriormente i diritti del popolo palestinese di accesso a trattati e convenzioni multilaterali. Per il momento sembra mancare la richiesta di adesione alla Corte penale internazionale, che da tempo preoccupa la leadership israeliana in quanto, in tale sede, l’Anp potrebbe direttamente contestare la presenza della forza occupante nei territori della Cisgiordania.

La stanchezza e la frustrazione per questo ennesimo tentativo di accordo fallito inizia a farsi sentire anche oltre oceano. “Ci sono limiti al tempo e agli sforzi che possono essere profusi dagli Stati Uniti, se sono le parti a non voler intraprendere passi costruttivi per andare avanti“, queste le parole del segretario di Stato americano, in seguito alla cancellazione dell’ultimo meeting a Ramallah. Ciò che pare sfuggire, nonostante siano passati decenni, è che la forza contrattuale delle due parti è eccessivamente sproporzionata per arrivare a dei punti comuni. In poche parole non esiste partita. Perché Israele dovrebbe rinunciare ad espandere i propri insediamenti, a ritirarsi dentro i confini del 1967 e a riconoscere Gerusalemme Est come capitale del futuro stato palestinese?

Forse ultimamente, con il successo di alcune campagne BDS che promuovono il boicottaggio a 360 gradi, un qualche tipo di pressione, quantomeno economico, inizia a sentirsi. Ma finché la comunità internazionale non inizierà a pretendere dallo stato israeliano il rispetto del diritto internazionale, i negoziati non potranno essere altro che una farsa, un alibi dietro il quale Stati Uniti e Unione Europea possono nascondersi.

Per ora non ci resta che aspettare il 29 aprile, termine ultimo delle trattative, per constatare quest’ulteriore fallimento politico e diplomatico e, forse, l’insegnamento da trarre è che l’America non è esattamente quell’arbitro neutrale, adatto a garantire gli interessi di entrambe le parti. A tal proposito si ricorda che il Congresso americano avrebbe approvato una legge che prevede la sospensione degli aiuti finanziari all’Autorità Palestinese e persino l’eventuale chiusura della missione diplomatica palestinese a Washington nel caso in cui le richieste di adesione vengano accettate.

E se è vero che arbiter poenam infligere non potest, nessuno potrà stupirsi del fallimento di questa mediazione senza mediatore.

Info sull'Autore

Laureata in Scienze Politiche e Giornalismo ed Editoria, da anni si occupa di geopolitica e relazioni internazionali, con particolare interesse per il Medio Oriente e il conflitto arabo-israeliano. Due grandi passioni, scrivere e viaggiare, l'hanno portata a trascorrere gli ultimi sei anni tra Roma, Valencia e Israele/Palestina. Ha inoltre frequentato il Master in Giornalismo Internazionale organizzato dall'IGS (Institute for Global Studies) e dallo Stato Maggiore della Difesa, nell'ambito del quale ha avuto modo di trascorrere due settimane come giornalista embedded nelle basi Unifil in Libano.

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