Marò: crisi diplomatica tra Italia e India

Pubblicato il 23 Mar 2014 - 11:00am di Redazione

Marò: il labirinto del diritto internazionale

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L’interrogativo che più ha inondato l’opinione pubblica e mediatica negli ultimi due anni riguarda il caso Marò, i due fucilieri del reggimento San Marco, trattenuti in India con l’accusa di omicidio ai danni di due pescatori indiani. Ciò che più scoraggia il mondo intero e non lascia intravedere, anche se solo in lontananza, il punto d’arrivo di questa agognata vicenda è l’assoluta discordanza delle versioni rilasciate dalla capitaneria italiana e dal governo indiano sull’accaduto.

Ripercorriamo, a questo punto, i fatti.

15 Febbraio 2012. La petroliera italiana Enrica Lexie, in missione antipirateria, lancia dei segnali di avvertimento, che sfoceranno in seguito in colpi d’arma da fuoco, a un peschereccio sospettato pirata che presentava, all’apparenza, tutte le caratteristiche di un’imbarcazione anomala, e soprattutto in una tratta marina spesso oggetto di fenomeni di pirateria. I colpi d’arma da fuoco sganciati prima in acqua e in aria causano la morte di due pescatori presenti sull’imbarcazione. La petroliera italiana viene, quindi, invitata con motivazioni non del tutto veritiere a gettare l’ancora nel porto di Kerala per collaborare alla risoluzione del caso con il governo indiano.

Come ogni leggenda metropolitana ci insegna, le imprese più ardue passano attraverso labirinti di interrogativi e opinioni individuali; e, diciamolo una volta per tutte, il labirinto oscura l’uscita di emergenza quando a regolarne il cammino è un diritto poco chiaro e preciso, basato su consuetudini, e non totalmente sovrano per gli stati internazionali.

La vicenda, secondo varie fonti e accertamenti, è da collocare a circa 20,5 miglia dalla costa del Kerala; il diritto internazionale marittimo e la Convenzione di Montego Bay del 1982 invalidano, quindi, la tesi indiana che vedrebbe la propria sovranità e il limite del mare territoriale entro le 24 miglia. La convenzione appena citata, infatti, stabilisce che ogni stato è libero di delimitare l’ampiezza del proprio mare territoriale entro le 12 miglia a partire dalla linea di base.  La sezione marittima interessata è denominata “fascia contigua”, un’area esterna alle acque territoriali, in cui lo stato più prossimo può rivendicare il proprio potere di controllo al fine di prevenire eventuali violazioni di leggi e regolamenti doganali; requisito che in teoria limita l’applicazione di un diritto nazionale penale per i reati commessi  oltre il confine territoriale, lasciando il potere di giurisdizione allo stato che batte bandiera, in questo caso l’Italia.

Ma la speranza non è l’ultima a morire: scongiurato l’iniziale pericolo di attuazione del SUA ACT,  legge antiterrorismo adottata dall’India nel 2002 che prevede la pena di morte per qualsiasi persona abbia causato la morte  di qualcun altro,  il governo indiano decide di optare per una misura meno drastica applicando l’art.3 comma a che stabilisce una pena massima di dieci anni. Tralasciando la pretesa di voler o meno dare un giudizio sentenziale nei confronti di Girone e Latorre, poniamo l’accento sulla preoccupazione che le relazioni internazionali attuali possano miseramente sgretolarsi causando una totale frattura nel dialogo tra le parti coinvolte; nonostante le vigenti norme, convenzioni e principi comuni che dovrebbero già configurarsi, di per sé, come agenti del garantismo diplomatico.

In linea con ciò che ho appena detto,  la mia riflessione giunge alla consapevolezza che una parte dell’opinione pubblica considera lo status di apparente benessere della “prigionia” dei due Marò come plausibile palliativo a una privazione di libertà.

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