Occupy Wall Street diventa un fumetto

Pubblicato il 10 Apr 2013 - 5:20pm di Redazione

La storia del movimento Occupy Wall Street viene ripercorsa all’indietro nelle tavole a colori di Stephanie McMillan

OccupyDicembre 2011: gli organizzatori di Occupy Miami ammettono che gli unici rimasti a dormire sotto le tende, montate nei pressi di Biscayne Boulevard e più o meno all’altezza del centro città, sono senzatetto, poco interessati alle piattaforme politiche del movimento, ma ben contenti di trovare riparo e compagnia per la notte. In quella frase c’è frustrazione, il morale sotto i tacchi, contraltare dell’eccitazione che aveva percorso il movimento come la scarica di un defibrillatore solo poche settimane prima.
Era iniziato tutto con l’occupazione di Zuccotti Park, un fazzoletto di terra, pochi alberi e molto cemento nella Lower Manhattan della grande finanza, Wall Street. Lì si erano insediati alcuni gruppi raccolti intorno allo slogan “Siamo il 99%“, per protestare contro l’iniqua distribuzione della ricchezza e l’influenza delle grandi corporation sulla politica. La prima settimana era passata senza troppi clamori, tra slogan e cortei improvvisati. Eppure New York appariva meno indifferente del previsto. Quando il 24 settembre la polizia eseguì 80 arresti, usando la mano pesante contro i dimostranti, la reazione fu immediata: la protesta dilagò nel paese, fino a Boston, Dallas, Cleveland, San Francisco, Seattle. Seicento tra manifestazioni e occupazioni da costa a costa, attenzione alle stelle, e solidarietà alla protesta espressa a gran voce da politici, intellettuali, uomini di spettacolo.
Un’esperienza che non è morta con la fine del 2011, in effetti. Ma peso mediatico e forza di mobilitazione si sono a dir poco ridimensionati rispetto ai mesi in cui ogni respiro proveniente dai campi era raccolto da torme di cronisti, numerosi eppure apparentemente incapaci di raccontare il movimento da dentro, penetrando la cortina di diffidenza che lo divideva dai giornalisti.

Ci ha provato Stephanie McMillan, cartoonist americana di origini tedesche già animatrice di diversi gruppi radicali statunitensi tra gli anni Ottanta e i Novanta, e improvvisamente riportata alla politica dalla breve primavera settembrina di Occupy.

«Sono un’attivista, disegno fumetti e scrivo», dichiara alla fine del suo Occupy Wall Street appena pubblicato in italiano dall’editore veneto Becco Giallo (144 pp. 15 euro), specialista del “fumetto civile“. Esattamente ciò che fa in queste pagine, ben lontane dalla semplice cronaca e da qualsiasi pretesa di equidistanza: Stephanie c’è dentro mani e piedi, non intende certo nasconderlo. Del resto il giornalismo a fumetti – tenuto a battesimo dalle cronache palestinesi di Joe Sacco ormai quasi vent’anni or sono, e divenuto con il tempo una piccola nicchia editoriale – non si è mai posto il problema dell’oggettività dell’informazione, superata dalla necessità di reinterpretare le storie raccolte sul campo attraverso il filtro grafico e narrativo del fumetto. Nel caso di Stephanie, l’operazione mira a unire diario personale e pamphlet politico.

Il racconto a fumetti della parabola di Occupy viene infatti interrotto spesso dall’autrice, per lasciare spazio a brevi paragrafi scritti che approfondiscono le radici ideologiche del movimento, spiegando perché il sistema capitalista sia nient’altro che una iattura per l’uomoprocesso che trasforma la vita in merci e rifiuti tossici») e quanto urgente sia la necessità di una rivoluzione nella società americana. La sincerità della McMillan appare cristallina e duplice: da una parte, l’adesione agli ideali del movimento; dall’altra, il rifiuto di nasconderne le debolezze e le divisioni interne. Ci sono le inconcludenti discussioni tra i militanti; la disorganizzazione; e poi le tentazioni populiste, definite “la trappola più pericolosa” sul cammino di Occupy.

Per chi si trova a leggere queste pagine, invece, la trappola è lo stile terribilmente dimesso del racconto, a cui il disegno aggiunge poco. Ma per molti l’importanza di un documento come questo sarà di gran lunga superiore al suo valore estetico e narrativo.

di Michele Serra

Fonte: Repubblica


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