Renzi e il Jobs Act: la resa dei conti

Pubblicato il 15 Ott 2014 - 12:13pm di Elisabetta Zazza

RenziPer il secondo anno consecutivo a Firenze, città natale del “gggiovane” Presidente del consiglio Matteo Renzi, dal 2 al 4 ottobre, si è tenuto il “Festival delle Generazioni”, un progetto ideato e promosso dalla Federazione Nazionale Pensionati, per unire gli interessi e le problematiche di due generazioni mai come oggi così lontane: i vecchi e i giovani.

Prendendo a simbolo questo evento, vorremo affrontare una questione che indubbiamente sta diventando un tormentone all’interno del dibattito politico: lo scontro generazionale. Niente a che vedere, naturalmente, con quello – più violento e ideologico – che infiammò il Sessantotto, e che vide fronteggiarsi due generazioni, quella dei figli contro i padri. Padri, simbolicamente anche intesi come “padroni”, incarnati politicamente nell’autoritarismo del sistema al quale i giovani si ribellavano.

Lo scontro che, invece, attualmente stiamo vivendo è qualcosa di molto più sottile e discutibile, che rispecchia un cambiamento antropologico che vede misurarsi su due piani queste due generazioni. Non si tratta più di uno scontro politico come fu quello del Sessantotto, ma piuttosto di un mutamento socio-economico da un lato, e di un contrasto interno al Pd dall’altro, che trova nella riforma del lavoro il suo inevitabile compimento. Ma andiamo per gradi.

A livello economico, il mainstream afferma che vecchi e giovani sarebbero agli antipodi dal punto di vista dell’equità sociale: gli anziani di oggi riuscirebbero a godere a lungo di una pensione, mentre i giovani faticherebbero anche a trovare un lavoro, al punto che raggiungere la meritata pensione sembra quasi una chimera, o peggio, un’illusione metafisica. Non è un caso che la generazione dei trenta-quarantenni sia stata definita, due anni fa, da Mario Monti (lo stesso per cui la Grecia – ricordiamolo – sarebbe “il più grande successo dell’Euro”) una “generazione perduta”, perché annientata dalla speranza nel futuro (e chissà di chi sarebbe la colpa: probabimente dei pensionati!). Da quel momento in poi, si è ufficializzata l’amara consapevolezza di quanto la palude economica stesse risucchiando, nelle sue sabbie mobili, prima di tutto i giovani con la loro precarietà e quanto questo stesse influendo sul cambiamento sociale.

Il dibattito sulla giustizia sociale è, dunque, sempre più legato ormai a quello sull’equità generazionale, ponendo la  questione delle ineguaglianze sociali non tra le classi, ma tra le generazioni: tra vecchi e giovani. Tra chi ce l’avrebbe fatta e chi no. Il corto circuito nel ricambio occupazionale ha provocato tali dislivelli che hanno contribuito alla crisi attuale e all’esigenza di un cambio di rotta, che ha fatto emergere la figura di Renzi dopo vent’anni di logorante berlusconismo e altrettanto logorante antiberlusconismo. È qui che si intersecano e si ingarbugliano le trame di questo cosiddetto scontro generazionale attuale – mentre, molto probabilmente, di scontro di potere si tratta – che vede coinvolto il Pd e che trova nella riforma del lavoro il suo capro espiatorio preferito.

Renzi, infatti, ha trovato nella necessità di ridare spazio e speranza ai giovani (ipocrita e qualunquista retorica giovanilista), il pretesto per uno svecchiamento totale delle generazioni, a cominciare dal suo stesso partito. Il nenonato Presidente del Consiglio non ha esitato a mettere subito in pratica questo proposito, rinverdendo e riplasmando il nuovo governo, circondandosi di giovani e belle ministre (le cui effettive competenze sono ancora da dimostrare) e lasciando nell’ombra i “vecchi” del partito. Un elogio giovanilista, che ricorda un po’ quello dell’Italia fascista (“Giovinezza, primavera di bellezza”, diceva la canzone), ma al femminile, stile Berlusconi. C’è un po’ di tutto, insomma.

Quest’ansia di rinnovamento e rottamazione del vecchio, seguito dalla smania (narcisistica e un po’ infantile) di attirare l’attenzione facendo continui annunci, creando sempre nuove aspettative, sembra che abbia provocato un certo malcontento all’interno del Pd, specie nella vecchia guardia, nominata un po’ ironicamente “la setta dei gufi”.  Qualcuno ha cominciato a intravvedere in Renzi la prosecuzione di un certo berlusconismo, in quella capacità di conquistare consenso e spendersi in parole.  È in questo clima contenzioso che si apre la spaccatura apparentemente generazionale e ideologica all’interno del suo stesso partito: sembra che Renzi si sia inimicato la sua stessa base sociale di sinistra, oltre ai “vecchi” del partito. Sospetto confermato anche dal suo rapporto con Berlusconi, dalla facilità con cui i due riescono a dialogare (cosa mai accaduta così apertamente nel Pd) fin da quel famoso “patto del Nazareno”, siglato il 18 gennaio scorso per procedere alla riforma elettorale (l’Italicum) e a una serie di riforme costituzionali.

Nel Pd alberga la paura latente che il patto si possa trasformare, in qualche modo, in un partito, che Renzi si faccia trascinare dal nemico e metta in un angolo quel che di sinistra resta del Partito Democratico. Piccato dal contrasto con gli “anziani”, il “giovane Cavaliere” ha, dunque, preso la riforma del lavoro – che fino a qualche mese fa non riteneva di primaria importanza – e l’ha fatta diventare un frettoloso e quanto mai ossessivo obiettivo da raggiungere in tempo zero, arrivando anche a chiedere la fiducia per non essere contrastato.

Tuttavia l’Art. 18 non è soltanto, come taluni credono, un espediente per spazzare via i vecchi del partito, né solo un’arma di distrazione di massa per nascondere, dietro una plateale impotenza, i tragici numeri della crisi economica e sociale. C’è di più. Una mossa politica tanto astuta quanto micidiale. Se Renzi si è accanito a tal punto sulla riforma del lavoro, tanto da porre la fiducia sul Jobs Act – sfidando non solo gli “anziani” recalcitranti, ma mettendosi sotto le scarpe il Parlamento e umiliando i sindacati – è perchè vuole offrire, in vista del prossimo vertice europeo, il sacrificio dell’Art. 18  agli scagnozzi dell’euro, ansioso di mostrare che l’Italia sarà il paese europeo con la maggior flessibilità liberista del mercato del lavoro, consegnando non solo lo scalpo, ma l’intero corpo della classe lavoratrice.

La questione dell’art. 18, da sempre cavallo di battaglia della sinistra italiana, è stata strumentalizzata su entrambi i fronti: sul fronte “anziani” per contrastare la leadership di Renzi e avere ancora voce in capitolo, sul fronte “giovani” (Renzi & company) per dare una dimostrazione e imporre a quel che resta del vecchio Pci un “mea culpa” per ciò che in vent’anni non è mai riuscito a realizzare. La riforma del lavoro, dunque, non è nient’altro che l’olocausto da presentare all’Europa e la sintesi e il simbolo di un regolamento dei conti tra le due opposte generazioni del Pd.

Info sull'Autore

Elisabetta Zazza è una testarda ragazza abruzzese, che dopo la maturità ha deciso di lasciare il paesino per studiare nella grande capitale. Dopo una laurea triennale in Lettere e Fiolosofia alla Sapienza, ha iniziato a collaborare per le testate “Prima Stampa” (cartaceo), “ConfineLive.it” e “Corretta Informazione.it”. Intanto, mentre scrive e lavora, sta terminando la specialistica in “Editoria e Scrittura”. Diventare giornalista è il sogno di chi è curioso di sapere, desidera capire e sente il dovere di raccontare.

Lascia Una Risposta