Ricordando Andrea Zanzotto

Pubblicato il 21 Ott 2013 - 6:12pm di Elisabetta Zazza

La poesia della “resistenza”, la resistenza della poesia in Andrea Zanzotto

zanzotto

Dovunque il guardo giro, immenso Caos ti vedo, per l’opre tue mi adiro, ti riconosco in me. Il ciel, la terra, il mare parlan del tuo strafare, del tuo globalizzare. Ma che? Per chi? Perchè?, si chiedeva Zanzotto, rifacendo il verso a una nota poesia del Metastasio.

Il 18 ottobre di due anni fa, il poeta Andrea Zanzotto moriva a Conegliano, in terra natia, all’età di novant’anni. Era nato a Pieve di Soligo, il 10 ottobre 1921. Nella sua lunga vita e carriera poetica, la scrittura ha sempre costituito un momento di grande espressione della propria esperienza e della propria personalità. La poesia di Zanzotto era il frutto di una grande onestà intellettuale e morale, non si è mai piegata alle esigenze del mercato, della comunicazione commerciale e pubblicitaria, si è sempre posta agli antipodi delle tendenze dominanti, e per questo si è trovata spesso in una posizione di «resistenza». Sin dall’immediato dopoguerra, con la vittoria delle sinistre e a seguire con la lunga egemonia dello scudo crociato, fino alla nascita della “Seconda Repubblica”, molti intellettuali “politici” hanno sfruttato la cultura per rastrellare consensi e far attecchire l’ideologia nella mentalità del popolo. Ma le opere più significative, quelle che hanno resistito anche all’usura del tempo, appartengono a quegli scrittori che, come Zanzotto, hanno guardato con distacco critico al carattere illusorio delle esaltazioni politiche, ai miti rivoluzionari, ai fantocci e ai feticci di parte. È una letteratura che denuncia gli equivoci di un’apparente apertura democratica e si frappone agli abusi di una quotidianità deformata, caratterizzata dal dominio assoluto dell’egoismo economico, dell’omologazione, dei modelli televisivi e pubblicitari, di una politica priva di spessore e di prospettive ideali, della degradazione della vita e dell’ambiente. È la letteratura che resiste contro l’assuefazione al rumore del mondo e agli orrori della storia e oggi, più che mai, sembra volerci ancora gridare la sua lezione, di fronte alla crisi che stiamo vivendo.

Il poeta che partecipò alla Resistenza nelle file di Giustizia e Libertà, usava il linguaggio stesso come strumento di resistenza contro l’incomunicabilità del mondo. Di tutto l’orrore che si trovava a vivere, l’unica cosa che sembrava resistere era, appunto, la poesia, unica voce di autenticità. La poesia scavatrice di Zanzotto cercava nel linguaggio il fondo delle cose, ne traeva dalle viscere l’essenza, la sostanza ultima e naturale. Servendosi di un linguaggio complicato, a volte quasi incomprensibile, si è cimentato in un dialogo continuo tra l’io e il mondo, l’io e la realtà, l’io e la storia. Una poesia che prende le mosse da un’ansia esistenziale sulla quale lavorare per ricavare dal linguaggio una forma di resistenza, di verità nella finzione letteraria dell’essere-poetico. Una poesia che non si risparmia mai, sempre pronta ad attaccare, a denunciare la miseria e la degradazione con cui ci si confronta quotidianamente, contro cui si lotta. In occasione della tragedia del VajontZanzotto, nella raccolta Filò (1976), esprimeva in versi tutta la sua indignazione verso quel disastro naturale, ma anche – e soprattutto – sociale, umano, frutto di un terribile intreccio di errori.

Pensiamo che i morti del Vajont sono il doppio/ di quelli che tu hai fatto adesso, tu terra (riferendosi al terremoto del Friuli)./ Quanto grande può essere dunque la nostra colpa? Parole che bruciano come una condanna marchiata a fuoco; Zanzotto voleva denunciare la bestialità dell’uomo che supera in tragicità le stesse calamità naturali – come aggravante c’è la “colpa” – e puntava il dito contro tutti coloro che avevano contribuito al disastro attraverso un perverso giro vite, fatto di frode, incompetenza e corruzione. Dinamiche che ci riportano alla mente un altro triste evento, quello più recente della strage di Lampedusa, avvenuta solo pochi giorni fa, dove sono morti circa 300 migranti a causa di leggi di un cinismo ai limiti della follia. L’ ardore indignato di Andrea Zanzotto scaturiva da un’innata intransigenza morale, per questo sapeva cogliere senza esitazioni ogni tipo di sopruso e di ingiustizia. Era ostile ai compromessi e detestava particolarmente la vanità nel suo potere distruttivo. Il poeta della “resistenza” ha vissuto e interpretato la storia attraverso una dolorosa e bruciante poesia della realtà, ha fatto emergere come bolle di lava incandescente tutti i mali di cui si andava consumando negli anni, senza risparmiarsi mai, dando voce al disagio interiore, alla nevrosi antropologica che chiedeva disperatamente un riscatto, una speranza di uscire dal pantano in cui ci si trovava a vivere.

Nella poesia Al mondo, tratta dalla raccolta La beltà (1968), Zanzotto fingeva di rivolgersi al mondo invitandolo ad esistere, oltre le filosofiche dissertazioni e le tentazioni di relativismo soggettivo; si rivolgeva al mondo con atteggiamento di sottomissione e benevolenza, come di chi ne è intimorito: Mondo, sii, e buono;/ esisti buonamente,/ fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto […] su bravo, esisti. È un mondo che non si lascia afferrare, che sfugge alla nostra comprensione perchè non vuole comunicare. Ma l’ironia dissacrante si svela tutta nel finale, in quel Su, Münchhausen, l’invito a fare come il barone di Münchhausen, che si toglie fuori dalla palude tirandosi per i capelli. È una soluzione impossibile, una contraddizione, anzi, un paradosso. Ma – paradosso dei paradossi – è un invito azzeccato per la logica della nostra situazione attuale; è un invito a uscire dal cerchio, dal vortice della malastoria con le nostre sole forze. Uscire dal pantano è l’immagine di tutta l’esistenza. È l’imperativo del ribelle, di chi, dopo essere stato schiacciato si solleva contro il suo oppressore. «Si è nel labirinto per tentare di sapere da che parte si entra e si esce o si vola fuori».

ZanzottoIn un mondo dove tutto continuamente scivola, si dilegua, spira passando, gira vorticosamente e il divenire storico è inafferabile, incomprensibile, ingiusto, la poesia di Zanzotto ha trovato in sé stessa un’àncora, un principio di resistenza. Resistere alla nevrosi e all’inquietudine per la degenerazione, alla ricerca di un rapporto ancora autentico con la storia, con la natura e con il mondo. Per il grande poeta della “resistenza”, in ogni momento  della sua vita è stata la poesia l’unica fonte di i(n)spirazione ed espi(r)azione, atto creativo che era insieme respiro, liberazione e purificazione dalla realtà. Nel saggio Una poesia ostinata a sperare, Zanzotto sottolineava proprio questo aspetto salvifico della poesia: In realtà la poesia non era mai stata salvatrice nella forma intesa dai teorici […] Essa era di per sé stessa, in ogni caso, salute, era sempre stata l’apparizione più probabile della verità, della libertà e quindi della storia. La poesia è una cura che non cerca la guarigione, ma la verità.

Nella lirica Lo sbandamento: il principio «resistenza», Zanzotto immortalava un angolo di umanità dal sapore universale che, a distanza di quarantacinque anni, è ancora fortemente attuale: Ma che cosa è questo momento, cielo/ di azzurro senza danno miai danno/ o di paziente fumo […] Io non vedo nulla e recito senza sforzo/ o con sforzo una vita […] L’uomo avviene e viene/ tu salti oltre la strada e l’affossamento/ oltre il vallo ed il fumo/. Rapido salti/ ma t’ho veduto/ «Vedere». Il sentimento di inappartenenza, rispetto all’innocenza incontaminata delle volute di fumo nel cielo azzurro, si traduce in un’ammissione di cecità e di ignoranza. Il motivo di recitare una vita implica una modalità di vita inautentica, un “non vedere” che è sinonimo di impotenza, una vita in cui, sentendoci in trappola, ci si adegua passivamente ad essa. La lezione zanzottiana contenuta in questa poesia, complessa ma molto acuta, è che l’unico modo per uscire da questo muro di incomunicabilità è saltare oltre la strada: ribellarsi all’ordine del caos, oltrepassare con un balzo il fumo e l’affossamento storico all’inseguimento di un «vedere» autentico.

Zanzotto ci dice che per uscire dall’inganno dobbiamo vedere, che non dobbiamo lasciarci stordire dalla “retorica”, quella che ad oggi subiamo nella facile demagogia, nelle promesse di governi inadempienti, nell’appiattimento dei partiti e delle ideologie, nelle leggi post-moderne che da tempo non sono più espressione della giustizia: tutto ciò è solo fumo davanti agli occhi, miopia, sbandamento. L’uomo avviene e viene, nel senso che si scontra con l’accidente, con l’arbitrarietà del divenire – è una lotta impari –  ma nel suo cammino, nel suo andare incontro alla storia può scegliere se lasciarsi stordire dal fumo o se oltrepassarlo. Come uno schiaffo che ammonisce, la poesia di Zanzotto ci dice che per uscire dal pantano del fatalismo, dell’inganno e dell’aberrazione dobbiamo oltrepassare la cortina di fumo e «vedere». Aprire gli occhi è il più grande gesto di ribellione: E anche se sarà/ ancora una menzogna, ancora un imbroglio, / aver pensato di farcela/ contro tutto quello che di schifoso ci sta dentro/ e ci fa delirare, / contro tutto quello che ci sta attorno/ nemico immenso e oscuro/ che da sotto da sopra da dovunque/ ci viene addosso, almeno non avremo/ barato nel nostro gioco, contro noi stessi (da Filò). La poesia “resiste” perchè ha il coraggio di sperare, questa è la più grande lezione di Zanzotto.

Info sull'Autore

Elisabetta Zazza è una testarda ragazza abruzzese, che dopo la maturità ha deciso di lasciare il paesino per studiare nella grande capitale. Dopo una laurea triennale in Lettere e Fiolosofia alla Sapienza, ha iniziato a collaborare per le testate “Prima Stampa” (cartaceo), “ConfineLive.it” e “Corretta Informazione.it”. Intanto, mentre scrive e lavora, sta terminando la specialistica in “Editoria e Scrittura”. Diventare giornalista è il sogno di chi è curioso di sapere, desidera capire e sente il dovere di raccontare.

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