The end of the tour, trama e recensione: il viaggio nella solitudine di David Wallace

Pubblicato il 11 Feb 2016 - 9:53am di Jessica Cerino

Dall’11 febbraio nelle sale italiane The end of the tour, la pellicola-viaggio che racconta la storia di David Forest Wallace e il suo incontro con il giornalista David Lipsky.

The end of the tour, trama e curiosità

E’ il 1996 David Lipsky (Jesse Eisenberg) decide di intervistare il noto scrittore e saggista David Forest Wallace (Jason Segel). La nuova penna di Rolling Stone propone alla redazione un pezzo su un soggetto che lo ispira e va contro le prassi della rivista musicale. Il giornalista, a seguito della pubblicazione del rivoluzionario romanzo di Wallace Infinite Jest, si prepara per un viaggio di cinque giorni insieme alla “rock star della letteratura”.

Tra i due nasce qualcosa, un’amicizia, un sentimento di stima e di competizione allo stesso tempo. Entrambi condividono paure e fragilità, attimi divertenti e sinceri, punti di vista sul mondo e sul senso della vita. Conclusa la ricerca, Lipsky saluta lo scrittore e torna alla quotidianità. Non si incontreranno più.

Il film è tratto dal libro Come diventare se stessi, edito dopo che Wallace si tolse la vita nel 2008.

L’intervista-viaggio non fu mai pubblicata e le cassette audio sulle quali furono impresse le conversazioni finirono nello scantinato di Lipsky, il quale volle rendere omaggio al suo amico di avventura con una biografia.

David e David sono due lati della stessa audiocassetta. Lipsky e Wallace sono pagine dello stesso copione, sono le parole della registrazione sbobinate nel libro che ha ispirato la sceneggiatura di questo lungometraggio.

Recensione del film “The end of the tour”

Lo sceneggiatore Donald Margulies ha precisato che alla battuta del collega produttore David Kanter: “Dagli un’occhiata, potrebbe rivelarsi un’opera teatrale”, ha pensato che non ci fosse nulla di “teatrale”. Piuttosto, fin da subito, ha immaginato la storia sul grande schermo come divertente, profonda e totalmente cinematografica.

La pellicola, difatti, si presenta come un anti-biopic che commuove e intrattiene con leggerezza e simpatia.

Il regista James Ponsold spiega alla stampa internazionale: “I film biografici tendono ad essere un po’ piatti e a ridurre la reale complessità di una vita. Di solito provo una vera avversità nei confronti di tale genere. The end of the tour è simile ad un’istantanea di due vite nel corso di pochi giorni. La sceneggiatura è in gran parte, se non interamente, basata sulle reali conversazioni registrate, l’autenticità non può essere messa in discussione. Donald Margulies ha poi aggiunto l’elemento drammatico. Tutto inizia come il viaggio di un giornalista alla ricerca di un soggetto inafferrabile, la vicenda però man mano si complica a causa dell’ego, dell’insicurezza, della gelosia e dell’ammirazione. Alla fine diventa quasi una platonica storia d’amore non corrisposta”.

Scopo del film, pertanto, è guidare lo spettatore su alcuni temi. In particolare, emerge il tentativo di evidenziare il forte senso di inadeguatezza e di solitudine che accomuna gli interpreti della società, gli scrittori, i giornalisti, gli artisti.

Tra ironia e cinismo le scene si susseguono, delineando sia la psiche e le aspirazioni dei due protagonisti che una visione cinica sulla società americana consumistica, occidentale e tecnologica degli anni novanta.

Locations e riprese

The end of the tour è un road movie che non lascia mai il Midwest, la casa di Wallace.

“Era importante che il paesaggio del Midwest fosse parte dell’anima del film”, spiega il giovane cineasta Ponsoldt.

Tavole calde aperte tutta la notte, centri commerciali, camere d’albergo, lo studio di registrazione radio, la automobili di Lipsky e della loro autista, inseriscono Wallace nella vita reale. Mentre la dimora senza televisore, immersa nella neve ed arredata di soli libri, incornicia perfettamente il ritratto di un artista che combatte la depressione in compagnia dei suoi cani. Gli spazi e luoghi scelti per le riprese riescono a trasportare lo spettatore nel contesto storico-sociale, sensibilizzandolo all’aspetto psicologico.

La scelta dell’inverno si rivela importante perché colora di gelo e ghiaccio i frame della pellicola, così come il cuore del protagonista suicidatosi nel 2008.

Il montaggio, invece, dà un ritmo lento alla narrazione ben sostenuto dalla colonna sonora di Danny Elfman.

The end of the tour è di sicuro un progetto cinematografico inusuale che fornisce spunti riflessivi degni di nota.

Gli ostacoli relazionali di Wallace, scrittore e saggista, viaggiano sulla stessa strada di quelli di Lipsky. Quest’ultimo mette in scena il complesso rapporto giornalista-intervistato. In entrambi i casi si potrebbe parlare di “legame alchemico”. Lipsky si immedesima nell’altro, arrancando con tutte le forze nell’imparzialità. Wallace assorbe le sensazioni ed i fenomeni sociali reinterpretandoli nelle sue opere.

Non sembra una pellicola universalmente comprensibile. Lo spettatore deve fare uno sforzo per carpire la sofferenza e la rappresentazione dell’alienazione dell’individuo nella società postmoderna. Il film richiede attenzione al sottotesto, evidenziabile con maggiore velocità da chi è attivo nel settore dell’editoria e dell’industria culturale.

Di conseguenza – per renderne più scorrevole la comprensione – riportiamo le parole di Wallace in un’intervista del 1993: “Soffriamo tutti da soli. Una reale empatia è impossibile. Ma se una storia riesce a farci immaginare di identificarci con il dolore di un personaggio, siamo più facilmente portati a pensare che anche gli altri si identifichino con il nostro. E’ una sorta di redenzione, diventiamo meno soli dento di noi. Può essere così semplice”.

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