Vajont: frana colposa o dolosa?

Pubblicato il 10 Ott 2013 - 9:00pm di Emilia Abbo

A cinquant’anni da quella notte del 9 ottobre, fra scuse tardive e commemorazioni ufficiali, emergono nuovi inquietanti interrogativi sulla tragedia del Vajont

Vajont

Quest’ anno ricorre il cinquantesimo anniversario della tragedia del Vajont, avvenuta il 9 ottobre 1963, che trae il suo nome dal torrente che venne utilizzato per la formazione di un bacino idroelettrico, sul quale cadde un’ingente frana che si staccò dal monte Toc (posto fra il Veneto ed il Friuli), sollevando due altissime ondate (con uno spostamento totale di ottanta milioni di metri cubi d’acqua), una delle quali sterminò i villaggi posti sulle sponde del lago artificiale (come Erto e Casso). L’altra ondata, invece, superò incredibilmente  la diga ‘più alta del mondo‘ (progettata dall’ingegner Carlo Semenza) per poi riversarsi a folle velocità, attraverso una stretta gola, sulla valle sottostante, portando con sé i detriti accumulati durante il percorso, e causando la sparizione di alcune località, come ad esempio il paesino di Longarone, del quale rimase soltanto un gruppetto di case su quel che venne trasformato in un desolato ‘paesaggio lunare‘ (Avvenire d’ Italia, 13.10.1963).

Il campanile della chiesa di Pirago miracolosamente resistette all’ impatto, ergendosi in solitudine fra un ammasso di macerie. L’unico dato numerico che veramente conta è il numero delle vittime, che ufficialmente si aggirano intorno a 1915, anche se non vi è un solo titolo dei giornali dell’epoca che non parli di cifre ben più impressionanti (il Corriere della Sera del 12 ottobre, ad esempio, parla di ‘tremila morti e forse più‘). Moltissime persone, del resto, non vennero mai ritrovate, e le stesse ricerche furono ostacolate dal rischio infettivo causato dalle esalazioni (Corriere d’Informazione, 13.10.1963).

Il presidente del Senato Pietro Grasso, dopo mezzo secolo, ha chiesto scusa a nome dello stato per una strage sulla quale non è stata ancora fatta piena luce e giustizia, e che sarebbe stata evitata se ‘sulla moralità, sul valore della vita, sulla legalità‘ non fosse prevalsa ‘la logica senza cuore degli affari‘ (Il Messaggero, 8 ottobre 2013). Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo messaggio, ha affermato: ‘Quella non fu una tragica, inevitabile fatalità, ma drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità‘. (Ansa.it, 9 ottobre 2013).

Alla base della catastrofe vi fu, dunque, l’allettante prospettiva di poter utilizzare l’energia dell’acqua a fini industriali, e quindi un giro di grandi interessi economici, che ‘accecarono‘ al punto da sorvolare su preventivi controlli e misure di sicurezza, e anche al punto da mettere a tacere tutti coloro, ivi compresi esperti nel settore (come ad esempio il geologo Edoardo Semenza, figlio di Carlo) che con lungimiranza evidenziarono i pericoli e i rischi che tale ambizioso progetto implicava. Proprio in questi ultimi giorni, accanto alla teoria della colposità, dovuta a superficiale imprudenza, è stata presa in esame anche quella della dolosità, ovvero di un’intenzionale e premeditata volontà di provocare una frana, seppur ‘pilotata‘ e dalle dimensioni assai più ‘ridotte‘ rispetto a come si manifesto’ in realtà. Questo intervento sarebbe stato finalizzato a favorire il collaudo dell’opera, e quindi ad incrementarne il valore commerciale, in vista di un’eventuale Vajontpassaggio di proprietà all’Enel. Collaudare il bacino idroelettrico implicava essenzialmente, al di là di dettagliati tecnicismi, innalzare il più possibile il livello delle acque del lago artificiale, per poi abbassarle nuovamente in un secondo momento, mettendo quindi a dura prova la resistenza delle pareti montuose che ne venivano a diretto contatto. In base ad un’intervista – rilasciata al quotidiano Il Gazzettino – da parte di Francesca Chiarelli, figlia del notaio Isidoro (deceduto nel 2004), la responsabilità del disastro sarebbe attribuibile ai dirigenti della SADE (Società Adriatica di Elettricità), la potente compagnia di cui era stato fondatore e presidente il conte Giuseppe Volpi di Misurata (ministro delle finanze durante il governo Mussolini), che promosse la costruzione della diga e che morì sedici anni prima della tragedia. Le testuali parole che suscitarono l’ indignazione del notaio Chiarelli sarebbero state le seguenti:

Facciamolo il 9 ottobre, verso le nove – dieci di sera. Saranno tutti davanti alla TV ‘per via di un importante evento calcistico’ e non ci disturberanno, non se ne accorgeranno nemmeno. Avvisare la popolazione? Per carità. Non creiamo allarmismi. Abbiamo fatto le prove a Nove, le onde saranno alte massimo trenta metri. Non accadrà niente e comunque per quei quattro montanari in giro per i boschi non è il caso di preoccuparsi troppo.

Il notaio avrebbe assistito a questa conversazione poiché svolta all’interno del suo studio di Longarone, mentre si stava svolgendo un atto di compravendita riguardante un terreno. Anche Silvia Chiarelli, docente universitaria a Padova, e sorella di Francesca, afferma che suo padre, nonostante le intimazioni a tacere, non smise mai di farsi testimone di quelle parole, seppur cio’ gli costò la perdita del lavoro e uno stato di totale emarginazione. La più grande amarezza del notaio, afferma Silvia, fu quella di non essere mai stato creduto, nonostante il potere ‘certificante‘ conferito dalla sua professione. Quel che Francesca e Silvia Chiarelli, a distanza di cinquant’anni, portano alla ribalta, non sarebbe quindi una novità, ma un qualcosa che, all’epoca dei fatti, venne appositamente ignorato, nell’ottusa testardaggine di non voler accogliere verità scomode. Francesca e Silvia Chiarelli aggiungono che loro padre, lungi che disgrazia, definì ciò che avvenne ‘eccidio‘ (Oggi Treviso; 30/9/2013). In seguito alla testimonianza di Francesca Chiarelli, appresa dai giornali, il capo procuratore di Belluno, Francesco Saverio Pavone, ha aperto un fascicolo, per valutarne l’attendibilità.

VajontRipercorriamo, comunque, ciò che avvenne cinquant’anni fa. Pochissimi giorni dopo quelle ore 22.39 del nove ottobre, gli esperti si difesero dicendo che ‘non si poteva prevedere una frana così paurosa’ (Gazzetta del Mezzogiorno, 12.10.1965), implicando quindi che un episodio del genere, seppur di minore entità, non era comunque da escludersi (tanto é vero che si era già verificato anche durante la costruzione della stessa diga). I pochi che ebbero la forza di opporsi alla prepotenza della SADE  riuscirono a farsi sentire soprattutto grazie alla giornalista Tina Merlin, che subì perfino un processo per procurato allarme, quando era invece la stessa saggezza contadina a offrire interessanti spunti ai suoi articoli. La friabile natura del monte Toc, del resto, era nota fin dai tempi di Catullo, tanto é vero che lo stesso nome deriva dalla contrazione della parola friulana ‘patoc‘, che il dizionario definisce come ‘umido, fradicio, marcio‘.

La giornalista evidenziò anche gli innumerevoli disagi che la popolazione dovette subire, a partire da svantaggiosi espropri territoriali, fino al fatto che zone prima facilmente raggiungibili venivano ora separate dal lago artificiale come da un muro invalicabile. La Merlin, che era un’ ex-partigiana e che scriveva su un giornale di sinistra come lUnità, seppur sinceramente preoccupata per una zona in cui era nata e cresciuta, subì inevitabili strumentalizzazioni politiche, poiché per molti (incluso il poi apologetico Indro Montanelli), voleva soprattutto mirare – seppur veri e propri movimenti organizzati non si formarono – ad una sorta di protesta anti-capitalista, per certi versi analoga a quella degli odierni no-global. La Merlin venne prosciolta dalle accuse non dopo, bensì prima della tragedia, quindi il tribunale di Milano riconobbe che le sue previsioni erano sensate. Nonostante ciò il cantiere rimase aperto, e la centrale idroelettrica venne lo stesso collaudata.

L’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone arrivò immediatamente sul luogo del disastro con altri esponenti politici, ma non è chiaro comprendere come era stata affrontata la questione sui tavoli burocratici del governo centrale. Il processo di terzo livello, nonostante il riconosciuto impegno del giovane giudice istruttore Mario Fabbri, si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati, tranne Alberico Biadene (direttore del servizio costruzioni SADE) e Francesco Sensidone (facente parte della commissione che si occupò del collaudo). Entrambi ebbero una pena irrisoria rispetto all’enorme danno provocato (rispettivamente cinque e tre anni e mezzo, in gran parte coperti da indulto), anche perché  l’aggravante della previdibilità della frana non venne riconosciuto. Il direttore del cantiere, Mario Pancini, si tolse la vita prima dell’inizio del processo, ed anche altri due imputati morirono prima della sentenza definitiva. Ai parenti delle vittime venne versato un risarcimento, che giunse con ben trentasette anni di ritardo. Durante le indagini, del resto, non sarebbe stato trovato un solo geologo disposto a fare una perizia (Archiviostorico.corriere.it, 9 ottobre 2001). Di conseguenza, il caso del Vajont rimane ancora oggi lacunoso, irrisolto.

La ‘tragedia nella tragedia‘ del Vajont fu una fondamentale ostinazione a non voler sfidare una forza imprenditoriale che, in questo frangente, coincideva con quella dello stato. Fu un imperterrito rifiuto di ascoltare, di collaborare, di cambiare il proprio ristretto e conveniente punto di vista, nonché di non aver il coraggio di fermare un ingranaggio che oramai si era messo inelluttabilmente in moto, fino alle estreme conseguenze. Gli scomodi e petulanti ‘grilli parlanti‘ non erano ritenuti tali solo dai potenti, ma anche da molti comuni cittadini, soprattutto commercianti, che abitavano la valle, e che, prima del disastro, vedevano nel bacino idroelettrico non solo un antipatico mostro, ma anche la possibilità di attirare l’attenzione su una stagnante vita di provincia, e quindi un’ occasione per incrementare i loro guadagni. La macrocosmica legge del profitto, quindi, incorporava anche un microcosmico ingranaggio di opportunismi.

Che cosa resta, oggi, della tragedia del Vajont?  Resta innanzi tutto la diga ancora intatta, come muto testimone di una zona che ha preferito trasformarsi, più che in un affollato memoriale, in una speranza di rinascita, soprattutto grazie ai quei superstiti che, anche a costo di vivere con grandi disagi, non vollero trasferirsi altrove.  Si è voluto, in un certo qual modo, mantenere sullo sfondo quel silenzio che seguì a quando, con uno spostamento d’aria equiparabile alla caduta della bomba atomica, la massa d’acqua precipitò sulla valle. La tragedia del Vajont, seppur definita dall’Unesco, per la sua evitabilità, ‘racconto ammonitore‘, resta unica, imparagonabile e senza alcuna velleità pedagogica, anche se l’ostinata sfida dell’ uomo contro la natura si perpetua ogni giorno.

N.B. Data la complessità del controverso argomento, chiedo venia per qualsiasi inesattezza od incompletezza possa conseguirne, e che sarò ben lieta di rispettivamente rettificare oppure di colmare. 

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