Manovra del Governo Renzi: irregolarità e flebili aspettative

Pubblicato il 5 Apr 2014 - 7:00pm di Redazione

Renzi

Partirà ufficialmente dal 1° maggio p.v. la manovra fiscale varata dal Governo Renzi (contenuta nel D.L. 34/2014) a favore dei lavoratori dipendenti e quelli ad essi assimilati, con la quale circa 10 milioni di italiani dovrebbero beneficiare dell’aumento in busta paga pari a 80 euro al mese; tanti sono, infatti, i soggetti che in Italia percepiscono un reddito lordo annuo che raggiunge i 25mila euro, ovvero 1.500 euro netti al mese.

di Giuseppangelo Canterino

Le risorse necessarie per questo provvedimento ammontano a 10 miliardi di euro annui, che scendono a meno di 7 miliardi in considerazione del fatto che gli effetti partiranno appunto da maggio. Il Premier ha affermato che i suddetti fondi verranno reperiti “sulla base dei risparmi di spesa” e “senza l’aumento di tassazione“. I primi 6,4 miliardi, infatti, arriveranno dalla scelta (tutta politica) di non rispettare l’obiettivo di deficit di quest’anno, fissato al 2,6% del Pil e di riprogrammarlo al 3%. “Nessuno si è mai sognato di sforarlo”, spiega Renzi. Quello 0,4% in più dovrebbe garantire al governo di recuperare 6,4 miliardi. Altre risorse il Presidente del Consiglio conta di recuperarle dalla spending review (almeno 3 miliardi), dalla contabilizzazione del gettito IVA derivante dallo sblocco dei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione, dai 5 miliardi destinati al recupero dell’edilizia scolastica e delle misure per combattere il dissesto idrogeologico.

Ciò che preoccupa, in questa sede, non è tanto “il costo della manovra” in sé, ma la capacità di poter garantire ad essa risultati efficaci e duraturi nel tempo, ossia la possibilità di assicurare il posto di lavoro a quei milioni di persone che, a causa di molteplici fattori, rischiano di perderlo (si pensi che, secondo alcune stime e proiezioni dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro, nei prossimi 10 anni la disoccupazione dovrebbe crescere ulteriormente).

Al di là dei dati tecnico-finanziari, il piano dell’Esecutivo sembra, a detta di chi scrive, una manovra alquanto confusa e irregolare poiché, pur prevedendo uno sgravio fiscale sull’Irap pari al 10% a favore delle aziende, non aiuta chi si trova in una situazione di inoccupazione, disoccupazione, “esodo” o lavoro autonomo (non a carattere d’impresa). Il provvedimento, inoltre, “penalizza” – quasi in maniera illegittima – quei nuclei familiari monoreddito in cui una persona percepisce anche un solo euro in più rispetto ai 1.500 previsti al mese, e “agevola” – ad esempio – quelli plurireddito in cui due o più persone percepiscono meno di 1.500 euro al mese cadauno. Discorso a parte meritano i pensionati, tagliati fuori dalla manovra semplicemente perché il Governo ha preferito agire sull’Irpef e sulle detrazioni da lavoro dipendente e non spalmare i benefici una platea più larga. Questo, ovviamente, per evitare di “parlare di soli 10 euro in più al mese, come avvenuto in passato”, spiega il Ministro del lavoro Giuliano Poletti.

Tutto pare, quindi, fuorché un piano in grado di “stravolgere” gli equilibri economici a favore dei cittadini, poiché l’aumento della tassazione – differentemente da quanto sostenuto dal Premier – è costante e il valore dei soldi in busta paga potrà assumere soltanto un valore nominale. Il provvedimento, inoltre, suona quasi come un richiamo alla superata “scala mobile”, poiché il meccanismo in atto potrebbe portare a rivalutare annualmente la cifra in questione. Sintetizzando si potrebbe affermare che il provvedimento del Governo ha tutti i tratti di una propaganda politica, perché il beneficio sarebbe soltanto a favore di coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato (sempre più in disuso e presente prevalentemente nel pubblico impiego).

Rimanendo sul fronte lavoro, discorso analogo può essere fatto per il Jobs Act, lo strumento giuridico “sponsorizzato” da Renzi per modificare la normativa laburistica e rilanciare l’economia e l’occupazione. Un provvedimento in apparenza debole e incapace di porre rimedio alla situazione di crisi strutturale in cui versa il Paese.

Analizzando il D.L. n. 34/2014 (entrato in vigore il 21 marzo), infatti, è semplice comprendere come le modifiche sostanziali in esso contenute non siano altro che una rivisitazione di argomenti già trattati dalla precedente riforma Fornero.

In particolare, stando alla sintesi riportata su “internazionale.it”:

  • Viene alzata da 12 a 36 mesi la durata dei contratti a tempo determinato senza causale, cioè quelli per cui non è obbligatorio specificare il motivo dell’assunzione. La forza lavoro assunta con questo tipo di contratto non potrà essere più del 20 per cento del totale degli assunti.
  • I contratti a tempo determinato si potranno rinnovare fino a un massimo di otto volte in tre anni, sempre che ci siano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa.
  • Salta l’obbligo di pausa tra un contratto e l’altro.
  • I contratti di apprendistato avranno meno vincoli. Per esempio per assumere nuovi apprendisti non sarà obbligatorio confermare i precedenti apprendisti alla fine del percorso formativo. La busta paga base degli apprendisti sarà pari al 35 per cento della retribuzione del livello contrattuale di inquadramento.
  • È prevista inoltre l’abolizione del Durc (Documento unico di regolarità contributiva), il documento sugli obblighi legislativi e contrattuali delle aziende nei confronti di Inps, Inail e Cassa edile. Sarà sostituito da un modulo da compilare su internet.

RenziIl decreto è stato duramente criticato da alcuni sindacati. Soprattutto dalla Cgil e in parte anche dalla Fiom.

Il 12 marzo il Consiglio dei Ministri ha approvato anche un disegno di legge delega al Governo che affronta gli altri temi contenuti nel Jobs Act: dagli ammortizzatori sociali ai servizi per il lavoro, dall’introduzione di un sussidio di disoccupazione al salario minimo, dalla riduzione delle forme contrattuali alla tutela per le donne in maternità. Queste misure avranno tempi di approvazione più lunghi. Il disegno di legge dovrà essere convertito in legge delega dal Parlamento e il governo dovrà dare attuazione alla norma in un tempo stabilito dalla legge stessa.

Nulla di nuovo, insomma, se si considera che in Italia il governo pare aver preso il posto del Parlamento e che ogni provvedimento rientri nei casi straordinari di necessità ed urgenza richiamati dall’art. 77 Cost., permettendo all’Esecutivo di utilizzare sempre più sovente lo strumento del decreto legge o, comunque, del decreto legislativo come mezzo per legiferare. Chissà, quindi, per quanto tempo rimarremo fermi in attesa di risollevare le sorti di un Paese dilaniato dalla crisi, in cui molti settori dell’economia sono al collasso perché travolti dal vortice della concorrenza europea ed extraeuropea, dallo strapotere finanziario delle banche (BCE in primis) e dal gap economico nei confronti di altre nazioni, per non considerare i parametri per la riduzione di deficit e debito imposti dall’UE.

È ora che in Italia, come in Europa, la politica e le istituzioni la smettano di apparire e comincino a essere, perché soltanto un cambiamento radicale potrà riportare la situazione su livelli accettabili. La politica ha il dovere di essere più attenta e vicina ai cittadini in modo da responsabilizzarli ed educarli a un uso più corretto delle risorse disponibili. Per contro, le istituzioni hanno l’obbligo di analizzare costantemente il proprio operato e cercare soluzioni migliorative. Ma questo non potrà mai avvenire se le stesse forze politiche non saranno in grado di comprendere gli errori commessi finora e porvi rimedio. Il Paese è in stallo e ha bisogno di ripartire. Soltanto con onestà e competenza si potrà tornare a far strada.

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