Referendum Trivelle 2016, ambiente, economia e altri aspetti da valutare: perché votare Sì o No il 17 aprile

Pubblicato il 3 Apr 2016 - 2:28pm di Ubaldo Cricchi

Il 17 aprile 2016 è sempre più vicino: gli italiani in quella data potranno esprimere la loro opinione sul cosiddetto Referendum Trivelle e in questi giorni stanno cercando sempre più informazioni per poter prendere la loro decisione. Votare Sì, votare No oppure non andare alle urne? Sono tanti i fattori da considerare, dall’ambiente all’economia: ecco alcuni aspetti da conoscere per potersi fare un’idea e poter votare informati.

Il quesito del Referendum Trivelle 2016: perché votare Sì o No

La prima cosa da fare è cercare di eliminare ogni dubbio sul quesito del Referendum Trivelle: gli italiani dovranno decidere se i permessi per l’estrazione di idrocarburi in mare da parte di impianti che sono entro le 12 miglia dalla costa potranno essere rinnovati fino all’esaurimento del giacimento (scenario che si prospetterebbe in caso di vittoria del No o nel caso in cui non venga raggiunto il quorum) oppure se le attività devono essere interrotte alla scadenza della concessione (che è quello che vogliono i sostenitori del Sì). Il referendum riguarda solo le piattaforme già esistenti entro le 12 miglia dalla costa: la legge infatti ha già disposto il divieto per nuove attività di ricerca e perforazione entro le 12 miglia, mentre per quanto succede al di là di questa distanza non cambierà nulla. La particolarità di questo Referendum Trivelle consiste nel fatto che si tratta della prima consultazione popolare nata su iniziativa delle Regioni.

Esistono dei rischi per l’ambiente legati alle trivelle in mare?

Sono tanti i punti di scontro tra i sostenitori del Sì e quelli del No. Uno dei punti principali è sicuramente rappresentato dall’impatto delle trivelle sull’ambiente: le piattaforme inquinano oppure no? Di recente Greenpeace ha diffuso un documento che dimostra la pericolosità delle piattaforme sia per la fauna ittica che per la salute delle persone: i dati raccolti dall’Ispra tra il 2012 e il 2014 dimostrano che in alcuni casi nei sedimenti marini e nelle cozze che vivono vicine agli impianti sono state rilevate tracce di sostanze chimiche in quantità superiori rispetto a quelle massime stabilite dalla legge. Su questo aspetto il comitato Ottimisti e Razionali (che si oppongono al Referendum Trivelle) risponde esponendo tre punti: primo, per essere messe in commercio tutte le cozze della zona devono superare i controlli della Asl; secondo, i limiti indicati dalla legge che Greenpeace ha preso come parametro sono validi solo per le acque che rientrano in una distanza di un miglio dalla costa; terzo, la stessa Ispra conclude il suo studio assicurando che non ci sono criticità per l’ecosistema marino collegate alle trivelle.

Un secondo tema che deve essere preso in considerazione per poter votare informati al Referendum Trivelle del 17 aprile è certamente quello degli incidenti. In Italia ce ne è stato solo uno di grande rilevanza: nel 1965 al largo di Ravenna una piattaforma saltò in aria nella fase di installazione; non ci furono grandi danni per l’ambiente (il giacimento era di gas), però purtroppo persero la vita tre persone. Bisogna inoltre sottolineare che delle piccole perdite di petrolio sono inevitabili dove ci sono attività di estrazione (secondo un rapporto del Parlamento Europeo i satelliti tra il 1994 e il 2000 hanno individuato 9.000 episodi nel Mediteraneo). Stavolta a controbattere le ragioni del Sì ci pensano direttamente le società petrolifere di Assomineraria: per dimostrare che le trivelle in mare non inquinano fanno notare che nell’ultimo anno le località della riviera romagnola (dove sono presenti 40 piattaforme) sono state premiate con nove bandiere blu, l’emblema del mare pulito.

L’aspetto economico del referendum: quantità di petrolio e gas estratti e posti di lavoro a rischio

Bisogna poi pensare alla quantità di gas e petrolio che si può ottenere dalle piattaforme presenti entro le 12 miglia. Nel 2015 queste piattaforme hanno contribuito a soddisfare circa l’1% dei consumi nazionali di petrolio e il 3-4% per quanto riguarda li gas. I cittadini devono decidere se questi valori sono troppo bassi e non vale la pena proseguire con l’estrazione oltre alla scadenza delle concessioni, oppure se sono sufficienti per andare avanti fino all’esaurimento dei giacimenti e limitare, seppur di poco, le importazioni da altri Stati (molti dei quali, tra l’altro, perforano lo stesso mar Mediterraneo).

Una delle principali argomentazioni portate avanti dal fronte del No è quello relativo all’occupazione; Assomineraria afferma che l’intero settore dà lavoro, in modo diretto o indiretto a quasi trentamila persone, di cui 10.000 legate alla sola attività estrattiva. Ci si chiede a questo punto quanti tra questi rischiano di perdere il loro posto in caso di vittoria del Sì: è molto difficile dare una risposta precisa (anche per via delle gradualità con cui verrebbero chiusi i vari impianti, ma torneremo dopo sull’argomento); Gianantonio Mingozzi, vicesindaco di Ravenna, ha detto che solo nel distretto della città alla fine ci saranno circa 3.000 posti di lavoro in meno.

referendum trivelle aprile 2016Tra i 135 impianti che sono presenti nel nostro mare sono 92 quelli che rientrano nelle 12 miglia; la stragrande maggioranza di questi è gestita dall’Eni (maggior azionista per 76 strutture), mentre la parte rimanente è in mano alla francese Edison (15) e all’inglese Rockhopper (1). La tassazione a cui sono sottoposte in Italia le società petrolifere ammonta al 63,9%, un livello che viene definito relativamente alto se confrontato a quello dei Paesi Ocse. Nel Bel Paese però le royalties per chi trivella in mare sono abbastanza basse (4% per il petrolio e 7% per il gas); nel 2015 il gettito totale generato dalla royalties per le estrazioni su mare e in terra è stato di 352 milioni; le piattaforme petrolifere interessate dal Referendum Trivelle hanno contribuito con una quota di 38 milioni: in caso di vittoria del Sì la perdita per le casse dello Stato non risulterebbe così rilevante.

Bisogna sottolineare che l’Italia non è l’unico Paese che trivella in mare: i dati della Commissione Europea non sono proprio recentissimi, ma nel 2010 nelle acque dell’area UE erano presenti circa 900 strutture. Più della metà si trovano nelle acque del Regno Unito (465); al secondo posto c’è l’Olanda con 181 e al terzo posto c siamo noi con 135. Nel Mediterraneo ci sono poi altri Paesi che trivellano: pensiamo ad esempio all’Egitto, all’Algeria, a Israele e alla Libia.

Gli effetti di una vittoria del Sì e la spinta per le rinnovabili

Quando si inizierebbero a vedere gli effetti di una vittoria del Sì al Referendum Trivelle del 17 aprile 2016? Ci sarebbe da aspettare qualche annetto. Considerando che le concessioni rilasciate dallo Stato hanno una durata di 30 anni che può essere prorogata una prima volta per 10 anni e altre due volte per 5 anni (in tutto quindi si parla di permessi di 50 anni) e considerando le diverse età delle varie piattaforme, per vedere la chiusura del primo impianto (ovvero il più anziano) si dovrebbe aspettare un paio d’anni, mentre l’ultima trivella, la più nuova, verrebbe smantellata nel 2034. Ricordiamo che la stragrande maggioranza delle strutture coinvolte dal referendum è situata nell’Adriatico, con alcune presenze anche nello Ionio e al largo della Sicilia.

Un’altra cosa su cui spinge molto il fronte del Sì è il fatto che il graduale abbandono delle estrazioni potrebbe favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili. Se si guarda la media europea da questo punto di vista non siamo messi malissimo, visto che nel 2015 le fonti alternative sono state in grado di soddisfare il 17,3% dei consumi energetici nazionali. Se si considera che nel 2004 il dato si fermava al 6,3% i passi in avanti ci sono stati e questo ha permesso di raggiungere con un po’ di anticipo il traguardo del 17% stabilito dall’UE per il 2020. Però c’è un però, anzi due. Il primo è che i risultati ottenuti possono essere considerati come il minimo sindacale, nel senso che si dovrebbe puntare ad obiettivi più ambiziosi come hanno fatto Islanda, Norvegia e Svezia (che soddisfano più della metà del fabbisogno nazionale con le rinnovabili); il secondo riguarda il Governo, che sembra non spingere molto per lo sviluppo sostenibile, visto che ha diminuito gli incentivi per le fonti verdi.

Info sull'Autore

Sardo trapiantato in Umbria, dopo una lunga gavetta da articolista, posso vantarmi di essere un giornalista pubblicista. Convinto oppositore della scrittura in stile SMS, adoro gli animali e la musica.

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