Giallo anche per l’estate 2015, i principali personaggi del genere poliziesco

Pubblicato il 10 Lug 2015 - 8:02pm di Emilia Abbo

Come ogni estate, anche nel 2015 non potevano mancare in TV numerosi appuntamenti coi classici del giallo, e quindi  ci siamo  soffermati sui protagonisti più rappresentativi. I casi del commissario Montalbano vanno in onda regolarmente ogni lunedi sera su Raiuno, riscuotendo sempre altissimi ascolti (5.008.000 telespettatori per la puntata del 6 luglio) e del commissario Rex é stata riproposta su Raidue la mitica prima serie. L’inossidabile ‘signora in giallo’, assieme al maldestro tenente Colombo, ci tengono compagnia su Mediaset,  mentre La7 ha preso una pausa dalla politica, ospitando Navarro e Cordier.

Il termine ‘giallo’, per indicare il genere poliziesco, si riferisce al colore della copertina dei libri dell’edizione Mondadori, che  ebbero la loro prima comparsa nel 1929 e che vennero poi interrotti nel 1943,  in quanto in regime fascista individuava, nelle avvincenti trame che venivano architettate dagli autori, una sorta di istigazione al disordine sociale. Il primo investigatore della storia del giallo é Auguste Dupin, che compare nel racconto di Edgar Allan Poe ‘I delitti della via Morgue’ (1841). Il primo giallista italiano é invece ritenuto il napoletano Francesco Mastriani (1819-1891), che ha creato il precursore del letterario medico legale (Dottor Weiss).

Il primo vero investigatore deduttivo: Sherlock Holmes

Lo scrittore scozzese Arthur Conan Doyle (1859-1930)  é l’inventore del celeberrimo detective Sherlock Holmes, che compare per la prima volta nel romanzo Uno studio in rosso (1887).

Figlio di un positivismo che attribuisce più valore alla logica che alle emozioni, Holmes dimostra, allo stesso tempo, un’abilità quasi artistica, nonché unica nel suo genere, nell’esercitare la sua professione:

Le mani, invariabilmente macchiate d’inchiostro e di scoloriture provocate dagli acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato, come ebbi spesso occasione di notare quando lo osservavo maneggiare i fragili strumenti della sua filosofia. (A.C. Doyle, Uno studio in rosso, Mondadori, 1976).

Holmes raccoglie i suoi indizi avvalendosi di una capacità di osservazione che spesso é legata a particolari esteriori, come l’ aspetto fisico e l’abbigliamento. Nel racconto ‘La lega dei capelli rossi’  l’investigatore riceve la visita di un certo signor Jabez Wilson, che verrà scrutato attentamente. Dal fatto che abbia la mano destra più sviluppata della sinistra Holmes comprende che il suo ospite ha svolto un lavoro manuale, dal fatto che la manica destra della sua camicia sia più logora all’altezza del polso (e non del gomito come la sinistra) deduce che il signor Wilson ha scritto parecchio di recente, e dal fatto che abbia un tatuaggio che si fa solo in Cina, gli fa pensare con certezza che sia stato da quelle parti.  Quello che Holmes rivendica, quindi, non é tanto un’intelligenza superiore alla norma (la terza deduzione dimostra semplicemente il suo essere un uomo aggiornato e di mondo) ma semmai la capacità di soffermarsi a ragionare nel contesto di una società sempre più industrializzata e dominata dalla fretta, dalla scarsa curiosità per le altre persone. Il principale messaggio che Holmes trasmette, anche e soprattutto agli ispettori di Scotland Yard (coi quali spesso collabora) é quindi quello di non essere mai approssimativi e leggeri quando svolgono le indagini, anche e soprattutto per non venire a propria volta sviati. D’altra parte, é anche vero che Holmes si pone nei riguardi degli altri investigatori con una certa aria di superiorità:

Baynes é un detective di campagna, un tipo grasso col viso rosso e gli occhi brillanti e furbi. (Trad. da A.C. Doyle, ‘L’avventura di Wisteria Lodge’, Sherlock Holmes. Short Stories. Longman, 1979, p.104)

I colpevoli di Holmes sono generalmente delinquenti di professione, spesso latitanti,  ed anche tarati,  con la cattiveria nel sangue:

Questo é uno degli uomini più dediti al male del mondo, Watson. La sua particolare abilità é quella di derubare donne che vivono in solitudine, approfittando dei loro sentimenti religiosi. (Trad. da A.C. Doyle, ‘La scomparsa di Lady Frances Carfax’, op.cit., p. 73)

E’ un tipo mellifluo con una voce molto gentile, educata. Ma é assolutamente malvagio, ne sono certo. (Trad. da A.C. Doyle, ‘L’avventura di Wisteria Lodge, op.cit, p. 112)

I colpevoli di Holmes non sono quindi riscattabili, o degni di attenuanti.  L’investigatore li definisce tutti, ed indistintamente,  suoi ‘nemici naturali’, e quindi viene esclusa a priori la possibilità che fra loro possano esistere degli innocenti. Holmes deve semplicemente scegliere fra una rosa di recidivi, e cercare di abbinare il nome al misfatto, proprio come avviene in un abile gioco enigmistico. Tutto questo si addice ad una morale vittoriana ottocentesca che non solo divide rigidamente i buoni dai cattivi, ma fa anche in modo che questi ultimi vengano distanziati, etichettati, cosicché non potranno più sfuggire al loro imperdonabile passato, ovvero ad un ingranaggio convenzionale, che non ammetterebbe mai una persona ‘non referenziata’ in ambienti ragguardevoli.  Il tema dell’onorabilità sociale emerge nel racconto ‘L’uomo col labbro ritorto’ , dove Holmes si trova stavolta non alle prese con note bande criminali, ma con la scomparsa di un giornalista ed ex-attore, che si traveste ogni giorno da mendicante, anche ingraziando i passanti con la sua arguta sagacia. Quando Holmes intuisce che l’uomo conduce una doppia vita, comprende anche il legittimo desiderio di quest’ultimo di non dare un cattivo esempio ai figli,  e quindi farà in modo che la notizia non esca sui giornali, sempre a patto che il professionista torni ad indossare il ruolo rispettabile di sempre.

Se Holmes risolve dunque i suoi casi non per guadagnare popolarità, ma per semplice soddisfazione personale,  al suo amico dottor John Watson spetta invece il compito di raccontare la storia ai lettori, cosicché il suo personaggio assume un ruolo più attivo, più indispensabile. Altrimenti,  la sua funzione é essenzialmente quella di spalleggiare il detective (col quale condivide un appartamento londinese a Baker Street) raccogliendo le sue confidenze sul caso in questione, notando i suoi progressi, e riconoscendo dimessamente la sua bravura. La celebre frase ‘Elementare, Watson’ (che fu una successiva invenzione teatrale, e non letteraria) esemplifica il rapporto impari che esiste fra i due.  L’ amicizia di Holmes, seppur sincera e disinteressata, si esprime raramente e peculiarmente:

Non mi interessava la ferita- e non mi sarebbero interessate tante ferite- perché se non fossi stato colpito in quel modo non avrei mai compreso la straordinaria lealtà ed affetto che nutre Holmes nei miei riguardi- sentimenti che lui ha sempre nascosto dietro un’apparenza di freddezza. Per un attimo ho visto delle lacrime in quegli occhi chiari ed inflessibili, e le rigide labbra stavano tremando. Ho immediatamente compreso che Holmes ha un grande cuore oltre ad una grande mente. E quel momento in cui ho compreso é stato per me la ricompensa di tanti anni di umile servizio. (Trad. da A.C. Doyle, ‘I tre Garridebs’, op.cit. , p. 97-8)

In linea di massima, Holmes dimostra a Watson la sua amicizia razionalmente, e sempre notando dei particolari che denotano affiatamento, come quando si accorge che Watson ha le scarpe annodate con un bel doppio nodo, e non in maniera approssimativa come al solito.

Con il medico Watson, Holmes non parla tanto di scienza quanto di ‘pseudo-scienza’, vale a dire di quelle discipline che tendono ad influenzare l’altrui volontà, o di carpire gli insondabili risvolti della mente e dello spirito. Si affrontano casi in cui compaiono individui che vengono ipnotizzati (forse non a caso Sigmund Freud, che era contemporaneo di Doyle, si era interessato di questa materia prima di dedicarsi alla psicanalisi) oppure che scrivono trattati sulla catalessi, o che si dedicano alla magia, e dietro questi interessi si nascondono quasi sempre, ed invariabilmente, ciarlatani, approfittatori, truffatori.

Holmes ha solo un grande timore, ovvero quello di rimanere inattivo:

‘Il lavorio del cervello mi é assolutamente indispensabile.’ (Trad.da A.C. Doyle, ‘L’avventura di Wisteria Lodge’, op. cit., p.10)

Nei primi racconti, come ad esempio ‘Il segno dei quattro’, Sherlock Holmes é un abituale consumatore di droghe, poi questo aspetto viene rinnegato, e compare solo come oggetto di indagine o di fraintendimento:

‘Forse avrai pensato che sia diventato dipendente dall’oppio, Watson!’ (Trad. da A.C. Doyle, ‘L’uomo dal labbro ritorto’, op. cit., p.17)

Nel corso del tempo, Holmes viene quindi sempre più ‘imborghesito’, fino a diventare come appare nelle illustrazioni di Sidney Paget, ovvero con l’immancabile pipa da tabacco ed il cappello da cacciatore di daini. La sua tendenza alla malinconia viene poi rimpiazzata da un carattere spericolato, impaziente, curioso, conoscitore delle arti marziali, insofferente alle trafile burocratiche e quindi disposto a mettersi in situazioni imprudenti, trascinando con sé anche il fidato Watson:

Questa idea non mi andava affatto a genio. Il pensiero di quella vecchia casa con il suo inquietante proprietario ed i suoi precedenti mi facevano esitare. E poi non avrei mai voluto violare la legge. Ma come si poteva negare qualcosa ad Holmes? Coi suoi ragionamenti riusciva sempre a convincermi. (Trad. da A.C. Doyle, ‘L’avventura di Wisteria Lodge’, op.cit., p. 114)

Al contrario di Nero Wolfe, successivo investigatore creato da Rex Stout (1886-1975), Sherlock Holmes preferisce, in linea di massima, effettuare per conto suo i sopralluoghi, senza incaricare nessuno, e questo gli conferisce un senso di maggiore sollecitudine e responsabilità. Spesso Holmes é poi paragonato ad un cane poliziotto per il suo finissimo fiuto, ed in alcuni racconti si avvale lui stesso di un cane poliziotto, che diventa l’antenato del nostro moderno Rex, con la differenza che quest’ultimo é assai umanizzato, sentimentale, e non metterebbe mai a frutto le sue straordinarie doti senza sentirsi amato e coccolato.

Lo scapolo Holmes valuta le donne soltanto razionalmente, senza farsi prendere dalle emozioni. Nel telefilm ‘The Woman in Green’ , interpretato nel 1945 da Basil Rathbone, il detective osserva una  sua cliente dalla finestra, e deduce che deve essere molto preoccupata perché non ha fatto in tempo ad indossare i guanti, un errore non certamente trascurabile per una donna elegante e di classe. In questo stesso episodio, Holmes si metterà in competizione con una donna sul piano dell’astuzia, uscendone chiaramente vincente.

Nel 1891 Holmes perderà la vita, ma dal momento che il pubblico non volle rassegnarsi, Doyle lo fece tornare vivo e vegeto, proprio come accade nelle nostre moderne fiction. Dopo aver aiutato il governo inglese nel corso della Prima Guerra Mondiale, Doyle farà ritirare Holmes nella sua fattoria presso Eastbourne, dove si dedicherà all’apicoltura.

Il 20 febbraio di quest’anno il giornali britannici hanno annunciato il ritrovamento di un racconto inedito su Sherlock Holmes nella soffitta di uno scrittore ed ex-taglialegna. Pur tuttavia, sia le differenze stilistiche che l’assenza della firma autografa di Doyle fanno dubitare dell’autenticità di questo manoscritto, che é stato comunque esposto in un museo scozzese.

Hercule Poirot: l’evoluzione dell’investigatore ‘deduttivo’

La celebre scrittrice inglese Agatha Christie (1890-1976)  é la creatrice sia di Miss Marple (la nubile ed attempatella donna-detective) che dell’ investigatore belga Hercule Poirot, il quale compare per la prima volta nel giallo ‘Poirot a Styles Court’ (1920).  In questo racconto apprendiamo che Poirot é un rifugiato politico, venendo quindi a simboleggiare lo spirito di solidarietà, dalle tinte vagamente paternalistiche, che l’Inghilterra nutriva nei riguardi dei suoi alleati durante la Grande Guerra. Del suo passato in Belgio sappiamo soltanto che aveva una famiglia numerosa, non particolarmente agiata e che era capo della polizia di Bruxelles. Poirot abita in un appartamento londinese, nella zona di Smithfield,  ed anche se ha diversi amici fidati (in particolare un certo Arthur Hastings)  ama lavorare per conto suo, senza rivelare a nessuno i progressi delle sue indagini. Poirot viene fisicamente descritto come cicciottello, di età piuttosto avanzata, con la testa ovale, un po’ inclinata a destra, e con i baffi arricciati in punta.  Poirot soffre il mal di mare,  é intollerante a macchioline sugli abiti ed a granelli di polvere,  cosicché inizia a delinearsi in lui un tipo di investigatore più umano, con piccole manie e debolezze,  con un animo più pietoso e partecipe nonché più facile preda delle emozioni. Senza dubbio il cattolico Poirot risente un pochino dell’influenza di Padre Brown, il sacerdote detective inventato dal londinese Gilberth Keith Chesterton (1874-1936), poiché vi é in lui anche una certa tendenza ad attirare le altrui confidenze ed a fare la morale. Questi innovativi aspetti di Poirot (nonché una dimostrazione di come le trame dei gialli diventino sempre più raffinate con la Christie) vengono esemplificati nel film premio Oscar ‘Assassinio sul Nilo’ (1978), tratto dal celebre romanzo Poirot sul Nilo (1936). In questo giallo si evidenzia come la difficoltà ed il prolungarsi dell’indagine (che accumula un totale di ben cinque vittime) sia dovuta alla tendenza di Poirot a farsi fuorviare dai suoi sentimenti soggettivi, e dalle false apparenze. Durante un’esotica e suggestiva crociera sul Nilo, viene uccisa la ricchissima Lynette Ridgeway, che ha appena sposato l’affascinante arrampicatore sociale Simon Doyle. Quest’ultimo era precedentemente fidanzato con Jacqueline de Bellefort, la migliore amica di Lynette, che ora vuole vendicarsi seguendo i due novelli sposini ovunque, e quindi rovinando la loro luna di miele. Poirot, che inizialmente si trova in Egitto per vacanza (e non per svolgere indagini) prova, e fin dall’inizio, una certa simpatia per Jacqueline, ovvero empatizza con lei, cosicché, un po’ come farebbe il nostro attuale Don Matteo, cerca di consigliarla al meglio, anche avvertendola degli effetti devastanti che questo atteggiamento potrebbe avere su se stessa, ancora prima che sugli altri:

‘Non permetta al male di entrare nella sua anima, poiché vi si anniderà’

Quando Lynette viene ritrovata morta nella sua cabina del battello Karnak, a causa del colpo di una minuscola pistola, i sospetti di Poirot (e non solo) cadono naturalmente su Jacqueline, soltanto che quest’ultima ha un alibi di ferro, poiché quella stessa sera, in preda ad una crisi isterica dopo aver ferito ad una gamba Simon, non viene lasciata sola un attimo.  A questo punto Poirot deve dirigere i suoi sospetti su qualcun altro, e quello che sorprende, nel paradossale impianto narrativo della Christie, é che praticamente tutti i partecipanti alla crociera, per un motivo o per l’altro, detestavano Lynette (eccezion fatta,  chiaramente, per un vecchio amico di Poirot, il colonnello inglese Johnny Rice).  Il detective  inizia quindi ad immaginare una serie di possibili scenari, finché Louise Bourget, la giovane cameriera di Lynette, viene a sua volta eliminata, poiché stava ricattando il vero assassino.  Anche se dunque Poirot non poteva immaginarlo, la morte di Louise viene pianificata a causa di una sua umana debolezza, ovvero quella di aver dato il permesso all’abbacchiata Jacqueline di incontrare il convalescente ex-fidanzato Simon. I due, infatti, non si erano mai lasciati, ma avevano architettato un ‘delitto perfetto’ per impadronirsi delle ricchezze di Lynette. Se Poirot riesce a giungere alla verità, sarà per il fatto che anche la morte di Louise avrà una testimone  ( l’eccentrica scrittrice Salomé Otterbourne) che farà più o meno la stessa fine dell’incauta domestica. Il principale limite di Poirot diviene la sua ingenuità, la sua buona fede, che lo ha indotto a scambiare per verità delle vere e proprie messinscene. Simon, del resto, non era stato nemmeno sfiorato dalla pallottola sparata  da Jacqueline, ma si era ferito di proposito ed in un secondo momento,  dopo aver ucciso la moglie. Il detective illustrerà le sue conclusioni davanti a tutti, avvalendosi di diversi indizi ma senza avere una vera prova in mano, finché la pressione psicologica esercitata sui due colpevoli (oltre alla prospettiva di sottoporsi alla prova scientifica della ‘paraffina’) li farà crollare e confessare, ma farà anche si che Jacqueline, subito dopo, tolga platealmente la vita a Simon, e poi a se stessa.  La crociera sul Nilo si concluderà con un nuovo fidanzamento, e Poirot uscirà di scena con la frase di Moliére ‘La più grande ambizione delle donne é ispirare l’amore’, come se le romantiche aspirazioni femminili, che il celibe Poirot comprende pur senza lasciarsene coinvolgere, fossero il motore principale della vita, ma anche della tragedia passionale, e della morte.

Nel famoso giallo Assassinio sull’Orient-express  (romanzo nel 1934 e poi film nel 1972) viene ucciso un ricco uomo d’affari americano, e Poirot si imbatte in questo caso mentre sta tornando a casa da Istanbul. Tutti i dodici viaggiatori del vagone di prima classe non solo hanno lo stesso movente, ma non é nemmeno un caso che si trovino sullo stesso treno, poiché si sono messi d’accordo in precedenza.  Di conseguenza, anche se ognuno ha inferto un colpo, in realtà é come se avesse agito un’unica mano:

La cosa mi appariva come un perfetto mosaico in cui ogni pietruzza aveva il posto stabilito, come un dramma in cui ogni attore aveva rappresentato la parte affidatagli. Le cose erano disposte in modo che, se il sospetto fosse caduto su qualcuno, la testimonianza di un altro lo avrebbe reso innocente, con la conseguenza che si sarebbe ingarbugliata sempre più la matassa. (Agatha Christie, Assassinio sull’ Orient-Express, Ed. Mondadori, 1979, p.208)

Poirot, dopo avere ricostruito il suo puzzle investigativo, giungerà ad insabbiare il caso per via della particolare situazione che si trova dinanzi. I viaggiatori volevano punire l’omicidio della bambina Daisy, dal quale sono poi scaturite altre morti innocenti. Il vero criminale diventa quindi il gangster italo-americano Cassetti, che viaggiava sotto falso nome. Poirot prende la sua decisione (ovvero di mentire alle autorità iugoslave)  anche perché si lascia trascinare dal fascino della passeggera Linda Arden, che fa leva sul suo lato emotivo:

La società lo aveva moralmente condannato: noi non facevamo altro che eseguire la sentenza.

La meravigliosa voce della grande attrice echeggiava nell’affollato vagone: voce profonda, commovente, che aveva scosso tanti cuori nei teatri di New York. (idem, p. 214)

In questo giallo il vero colpevole diventa anche il mancato senso di organizzazione che le autorità a volte hanno nella ricerca dei criminali, il che fa serpeggiare un senso di esasperazione nella cittadinanza,  sfociando nella giustizia privata. Lo svizzero Friedrich Durrenmatt, nel romanzo La promessa (1958) crea il commissario Matthai, il quale si assume di persona (poiché non si sente in sintonia coi suoi collaboratori) la responsabilità di trovare un mostruoso colpevole, anche promettendolo solennemente alla madre della terza piccola vittima. Il commissario deve tuttavia venire a capo con la sua stessa limitatezza, e con la consapevolezza che spesso la riuscita dei casi dipende non tanto dalla bravura o dalla buona volontà dell’investigatore, ma semmai dalla fortuna,  da quegli avvenimenti accidentali che mettono sulla pista giusta. Matthai non riesce a rassegnarsi, ad archiviare il suo caso come irrisolto, ma rimane imprigionato nella sua determinazione frustrata, fino a giungere sull’orlo della follia.

Maigret: il primo investigatore sentimentale

Col commissario Maigret, creato dallo scrittore francese Georges Simenon (1903-1989),  l’investigatore inizia ad identificarsi con l’uomo comune, col piccolo-borghese  dal sapore sveviano, che diventa protagonista della sua anti-eroica quotidianità.  Maigret lo troviamo nelle strade, fra la gente del popolo, a mangiare piatti tipici nelle brasserie, e quindi con lui il detective scende dal suo piedistallo, diventando meno reticente e meno inaccessibile. Maigret non fa mistero sugli avvenimenti del suo passato, anche perché lo scrittore si avvale di una tecnica narrativa più moderna, più novecentesca, in base alla quale, attraverso delle associazioni mentali,  i piani temporali si intersecano. Nel racconto ‘Maigret ed il vagabondo’, ad esempio, l’ispettore trova tre biglie colorate negli abiti di un clochard rinvenuto dalla Senna, e questo dettaglio lo porterà a ripensare nostalgicamente alla sua infanzia. La prima inchiesta di Maigret avviene nel 1913, e l’investigatore compare giovane, pieno di entusiasmo, e con una bombetta in testa. Dopodiché, lo troveremo promosso ad ispettore di polizia giudiziaria nella sede centrale di Quai des Orfèvres, quartier generale della Sûreté parigina. Maigret non sa guidare, é meteopatico,  non ama i cambiamenti (la stufa di ghisa nel suo ufficio non verrà mai sostituita da un termosifone) e non ha, al contrario di Simenon,  ideologie politiche. Con Maigret le umane debolezze vengono non solo comprese, ma a volte anche perdonate, cosicché i suoi ‘malvagi’ sono, in linea di massima,  persone che inciampano a causa di una tragica fatalità, di un imprevisto, di una reazione emotiva momentanea che cambia la loro vita per sempre, e che sconvolge la loro intera esistenza.  Nel giallo  La stanza del giudice  (1942) Maigret si trova nel piccolo villaggio marino dell’ Anguillon, dove un uomo é stato ucciso nella casa di un magistrato di nome Forlacroix. Nonostante la posizione di quest’ultimo sia piuttosto compromessa, Maigret crede lo stesso alla sua proclamazione d’innocenza:

Il bello era che Maigret gli credeva già! Subiva una specie di incantesimo, in quella casa silenziosa, dove si udiva solo il crepitio della legna sul fuoco e in lontananza, quando tacevano, il rumore del mare. (G. Simenon, La stanza del giudice, Edizione speciale per il Corriere della Sera,  licenza Adelphi,  2015,  p. 27)

Maigret, più che cercare prove ed indizi, si lascia trascinare dalle sue spontanee e naturali impressioni,  al punto da diventare anche piuttosto influenzabile, suggestionabile:

Non era più Maigret pesante e flemmatico di sempre, l’uomo tutto d’un pezzo: senza che se ne rendesse conto, nei suoi modi, nell’intonazione della sua voce c’era qualcosa di Forlacroix. (Idem, p. 91)

Pur tuttavia, Maigret riesce anche a ricomporsi, a riprendere padronanza dei suoi pensieri e del suo ruolo:

Un Armagnac indimenticabile, un fuoco dal profumo balsamico, un’ora di molle beatitudine non gli avevano impedito di rivoltarsi contro il propro ospite, di tornare ad essere il Maigret inesorabile di Quai des Orfèvres. (Idem, p.33)

A volte Maigret ha modi un po’ rudi, grossolani, e bada poco all’ etichetta, alle formalità:

Faceva uno strano effetto vedere che Maigret entrava là dentro come se fosse casa propria, andava a colpo sicuro verso l’ attaccapanni per appendervi il cappotto e passava quindi in biblioteca. (Idem, p. 88)

Questa caratteristica la ritroveremo, negli anni Settanta, nel tenente Colombo, celebre non solo per il suo spiegazzato impermeabile, ma anche per il suo presentarsi nelle altrui abitazioni a tutte le ore,  e per ‘tampinare’ il sospettato finché questo si spazientirà apertamente.  Maigret e Colombo hanno quindi in comune un metodo piuttosto invadente, molesto, ma allo stesso tempo schietto e diretto, che rifugge da appostamenti nascosti e travestimenti:

Maigret, che camminava avanti ed indietro, si fermò un attimo ed assestò una robusta manata sulla spalla di Forlacroix. (Idem, p. 120)

Lo stipendiato Maigret segna un netto confine fra la sua dimensione lavorativa e quella affettiva, cosicché nella sua vita privata compare una moglie, l’alsaziana Louise Leonard, con la quale condivide l’appartamento parigino di Boulevard Richard-Lenoir. Maigret  diventa quindi sensibile al fascino femminile,  che pondera non solo dal lato intellettivo del termine, ma anche sensualmente:

Maigret non avrebbe saputo dire se <la figlia del giudice> fosse bella. Forse il viso era troppo largo, la fronte troppo bassa, il naso un po’ infantile. Ma il contorno sporgente delle labbra suggeriva l’idea di un frutto succoso e gli occhi erano immensi. (Idem, p. 36)

Come una specie di Ulisse joyciano, Maigret affonda nell’epica della sua umanità, ed anche negli istinti,  come il mangiare ed il bere:

Vino bianco! Mai in vita sua aveva provato una voglia così intensa di vino bianco. Gli pareva di sentine il gusto in bocca. (Idem, p.105)

Nonostante il lavoro che svolge, Maigret riesce dunque a mantenere una sua elementareità, una sua spontaneità di fondo, tanto é vero che il suo senso di osservazione non ha un carattere solo oggettivo, distaccato, ma diventa anche intimistico, o infantilmente artistico:

Ogni cosa lo stupiva e lo incantava. Le baracche, ad esempio, erano chiare, dipinte di bianco,  blu, verde. La casa del giudice era tutta bianca, con le tegole di un rosa delicato. (Idem, p. 39)

Maigret mette il giudice sul banco degli imputati, poiché nemmeno lui, una volta tolta la toga e riposto il martelletto, ha la possibilità di  sfuggire alle proprie passioni, al proprio dramma umano. Forlacroix ha una figlia malata di mente, Lise, ed un figlio, Albert, che é frutto di un tradimento coniugale. Maigret porta quindi alla luce, in primo luogo, una realtà amara nascosta dietro le apparenze:

Dal pianoforte, sulle loro teste, uscivano cascate di note e gli accordi di Chopin s’intonavano perfettamente a quella casa della buona borghesia, dove la vita avrebbe potuto scorrere placidamente. (Idem, p. 44)

Il giudice (che ha alle spalle un delitto passionale risalente a quindici anni prima) in questo caso ha invece la sola colpa di aver voluto coprire Albert, il quale ha ucciso un medico che intendeva ostacolare il matrimonio di Lise, che é in attesa di un bambino:

Le dirò quel che le ha spiegato il dottore… Che sua sorella é incurabile, che sarebbe stato disonesto gettarla fra le braccia di un bravo ragazzo, che il suo posto era in una casa di cura e che, in quanto medico, era tenuto a… (Idem, p.142)

Il delitto di Albert non é premeditato, ma é causato dall’impeto, dalla sua natura irascibile, e Maigret si rivolge a lui con termini anche affettuosi, paterni:

No ragazzo mio…é stato lei a colpire in un eccesso di rabbia, come quella che sta per montare ora, se non ci sta attento… (Idem, p.143)

Maigret é quindi assai sensibile alle motivazioni umane, ma sa anche bene che l’ispettore di polizia é nulla più di un umile servitore dello Stato, che deve proteggere ‘il governo, qualunque esso sia, le istituzioni, e poi la moneta ed i beni demaniali, la proprietà privata e solo dopo, ma proprio all’ultimo posto, la vita degli individui’ (G. Simenon, ‘Maigret ed il ladro indolente’, Ed. Adelphi, 2007)

Montalbano ed il ‘tramonto’ del giallo

Le parole di Maigret sembrano dunque anticipare in pieno lo spirito del nostro contemporaneo Andrea Camilleri, che col suo commissario Salvo Montalbano pone fortemente la questione di una mancanza di libertà investigativa che dipende, in primo luogo, da una dilagante corruzione, dall’esistenza della criminalità organizzata all’interno di quelle stesse istituzioni che il poliziotto rappresenta. Il commissario Montalbano spesso deve abbandonare le indagini, oppure deve vederle delegate ad altri, perché i suoi superiori non vogliono che invada, con la sua scarsa diplomazia,  i ‘piani alti del potere’:

Guardi, Montalbano, facciamo così e non se l’abbia a male: a condurre l’indagine, d’intesa naturalmente col Sostituto, sarà il capo della Mobile. Lei lo affiancherà. Le va bene?

( A. Camilleri, Gli arancini di Montalbano, ed. Mondadori, 2014, p. 45)

Montalbano é quindi un investigatore con le mani legate, che non deve permettersi di squarciare il velo dell’omertà, e quindi fare spazio ad un rigenerante e benefico caos. Lo scrittore cubano Leonardo Padura, creatore dell’investigatore Mario Conde, definisce ‘atteggiamento eretico’ quello che vorrebbe violare le verità nascoste, intoccabili, rivestite di sacro timore.  Montalbano, per non scalfire il consolidato impianto dello Stato (e quindi per non perdere il suo lavoro) deve  ripiegarsi su casi apparentemente facili, salvo poi accorgersi, ancora una volta, che gli scenari da cui era partito erano solo i primi fili di una ragnatela assai più ampia, complessa, articolata. I casi di Montalbano a volte hanno tratti goticheggianti (come quando, nell’episodio ‘Il cane di terracotta’, vengono ritrovati gli scheletri di due amanti) e poi influsce anche la componente culturale, dove é sempre presente la questione della dignità e del pudore (nell’episodio ‘La voce del violino’, ad esempio, Montalbano altera la scena del delitto per coprire la scomposta nudità della giovane donna assassinata). Il metodo investigativo di Montalbano tende al ragionamento aperto,  al dialogo disteso, e con lui non si assiste mai ad un vero e proprio ‘interrogatorio’. A volte, per racimolare nuove informazioni, il commissario invita sulla sua terrazza, che si affaccia su un mare cristallino,  amici o conoscenti della vittima (generalmente belle donne che tentano di intaccare la sua fedeltà all’ eterna fidanzata Livia, con la quale vive un tormentato rapporto a distanza). Oppure si confida con la fidata amica svedese Ingrid, alla quale, davanti ad un’ invitante frittura di pesce, rivela spesso i suoi problemi sia  lavorativi che sentimentali.

I criminali che Montalbano detesta sono i pesci grandi, le personalità influenti che monopolizzano, in maniera disonesta, un intero sistema, e non i  comuni delinquenti, che sono l’ultimo tassello di un ingranaggio assai più sofisticato.  Nel romanzo ‘Gli arancini di Montalbano’  l’affezionata domestica Adelina vorrebbe festeggiare il Capodanno con entrambi i suoi figli,  che sono finalmente fuori di galera:

Adelina aveva due figli delinquenti che trasivano e niscivano dal carzano: una felice combinazione, rara come la comparsa della cometa di Halley, che si trovassero tutte e due contemporaneamente in libertà. E dunque da festeggiare solennemente con gli arancini. (Idem, p. 266)

Montalbano, che ha litigato con Livia, quella mattina di San Sivestro ha ricevuto un mandato di cattura per Pasquale, uno dei figli di Adelina. Quindi, anche se non vorrebbe rovinare la festa (a cui egli stesso non vede l’ora di partecipare) non gli é nemmeno permesso di sottrarsi alle responsabilità del suo ruolo:

‘ Che, vuole fare?’

‘T’arresto, Pasquà.’

‘E pirchì?’

‘Come, pirchì? Tu sei un ladro ed io un commissario. Tu sei un ricercato ed io quello che t’ha trovato. Non fare storie.’ (Idem, p. 272)

Appurato che in effetti Pasquale aveva progettato un furto al supermercato con alcuni complici, ma poi é stato preceduto da altri malfattori, Montalbano con una telefonata anonima segnala i veri colpevoli alla Squadra Mobile, e poi nasconde Pasquale in casa sua finché é ora di recarsi insieme a casa di Adelina:

A scanso di cattivi incontri con la polizia di Montelusa, pinsò che era meglio tenere Pasquale a casa sua, macari senza manette, fino a quando faceva scuro. Poi, insieme, sarebbero andati da Adelina. E lui si sarebbe goduto gli arancini non solo per la loro celestiale bontà, ma pure perché si sarebbe sentito perfettamente in pace con la sua coscienza di sbirro. (Idem, p. 274).

La fittizia Montelusa sottende la città di Agrigento, così come l’immaginaria Vigata, dove Montalbano opera, ha caratteristiche simili a Porto Empedocle, dove Andrea Camilleri é nato, e dove sorge una statua in bronzo della sua creatura, la quale non ha le fattezze di Luca Zingaretti, ma appare come concepita nei gialli delle edizioni Sellerio,  ovvero con una folta capigliatura, i baffi ed il viso segnato dalle rughe.

Montalbano, oltre ai suoi fidati collaboratori Giuseppe Fazio e Mimì Augello, deve venire poi a capo con il sottoposto Gaetano Catarella, che rappresenta il poliziotto tanto irreprensibile quanto oggetto di sana ironia:

“La porta si spalancò di colpo. Montalbano sussultò. Era Catarella.

‘Finì di tilifinari, dottori?’

‘Si, pirchì tutta questa prescia?’

‘Pirchì da stamatina alli sette c’é uno ca ci voli parlari pirsonalmente di pirsona della istissa ‘ntifica facenna’

‘Dov’é?’

‘Nella càmmara d’aspittanza.’

‘Da stamattina alle sette? Perchè non me l’hai detto quando sono arrivato?’

‘Perché quanno che vossia arrivò, mi spiò se c’erano tilifonate. E io ce lo dissi. Non gli dissi del signore pirchì  non aveva tilifonato. ‘

La logica di Catarella era, al solito, ferrea. (Idem, p.31)

Montalbano, anche se non ha la possibilità di cambiare la realtà come vorrebbe, cerca comunque di smuovere le coscienze, ovvero accenna, sottende, narra. E quindi, seppur con poteri limitati, e con voce debole e fioca, l’investigatore (anche grazie alla grande vena ideativa del suo autore) riesce ancora a trovare la sua ragione di esistere, salvando il giallo dal suo tramonto ed avviandolo, appunto, verso una nuova estate.

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Per mettersi in diretto contatto con Emilia Abbo, inviare un' e-mail a: emilia_abbo@post.harvard.edu

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