Nicola Guaglianone, uno sceneggiatore che crea cinema grazie alle immagini

Pubblicato il 16 Gen 2019 - 6:48pm di Francesco Salvetti

Quattro chiacchiere con Nicola Guaglianone, uno dei più importanti sceneggiatori italiani, in un’intervista esclusiva per Corretta Informazione.

Spesso davanti ad un prodotto audiovisivo proviamo delle emozioni. Ridiamo, piangiamo facendoci trasportare dalla storia, dai protagonisti, dalla scena. Vi succede mai di provare a rivoltare tutto questo? Pensate mai che dietro una frase che ci ha particolarmente colpito o dietro una storia che ci ha suggestionato emotivamente, c’è una mente che crea e scrive? Oggi se si guarda al panorama italiano le storie sono sempre più variegate e spaziano in ogni genere, cercando di recuperare quel gap narrativo che fino a qualche anno fa contraddistingueva il nostro cinema come inferiore. Ma questa rivoluzione, questo cambiamento, da dove è partito? Da uomini come Nicola Guaglianone, che hanno provato a cambiare le cose e ci sono riusciti. In attesa che tutto il pubblico vada a vedere la sua ultima fatica “Non ci resta che il crimine” (scritta assieme a Menotti, Andrea Bassi e Massimiliano Bruno), lo abbiamo raggiunto al telefono per cercare di rubare i segreti di un bravo sceneggiatore.

Intervista esclusiva a Nicola Guaglianone

Ciao Nicola, quando hai avuto la folgorazione che scrivere storie sarebbe diventato il tuo mestiere?

Io ho sempre amato il cinema. Sin da subito non avevo le idee chiare se fare lo sceneggiatore perché in realtà: ero troppo timido per fare l’attore e pigro per fare il regista. Quelli erano gli anni in cui Gabriele Mainetti, Claudio Santamaria, Giordano De Plano avevano la passione per la recitazione e andavano ai seminari della Bracco e della De Sapio ma per me andare, parlare in pubblico e mostrare tutte le mie fragilità era una montagna impossibile da scalare. Sono stato sempre introverso e ho iniziato a ragionare sulle storie scrivendo i primi racconti, tanto che, uno dei primi scrittori che ho cominciato a leggere era Moravia. Ero rimasto folgorato dalla sua semplicità per come racconta l’animo umano e i suoi orrori, non a caso in seguito ho amato Bukowski. Ho fatto un corso che mi ha salvato la vita con Leo Benvenuti. Erano dei seminari totalmente gratuiti, in cui ci diceva che: “è impossibile fare corsi di ironia ma quello che possiamo fare è cercare di raccontare il mondo”. Da lì scrissi un cortometraggio orrendo, a Leo era piaciuto. Questa dose di vitamina c è stata la vera forza per capire che potevo fare questo lavoro. Inizialmente dovevo anche girarlo ma poi, parlando con Gabriele Mainetti, è diventato il suo primo corto da regista ( “Il produttore”). Da lì, a dire il vero, sono stato anche fortunato dato che le prime cose che ho scritto le ho poi subito vendute. Tra queste c’era un “B-movie” una coproduzione dove mi mandarono in Canada a riscriverne la sceneggiatura. Al mio ritorno ho fatto il servizio civile a Tor bella Monaca dove ho scritto poi una serie sugli obiettori di conoscenza.

Recentemente nel film di Virzì “Notti magiche” il consiglio che viene dato ai tre aspiranti sceneggiatori è quello di guardare fuori dalla finestra per poi fare cinema. Da dove parte il tuo processo creativo?

Una volta si diceva: “i registi pensano per immagini, gli sceneggiatori per concetti”. Io ti devo dire la verità lavoro anche per immagine. Le immagini che di solito mi interessano sono sempre quelle fuori contesto. Ti faccio un esempio: quando ho iniziato a scrivere “Tiger Boy”, mai e poi mai avrei pensato di scrivere una storia sulla pedofilia e sulle molestie, quello è arrivato dopo. Il primo racconto è stato quello di un bambino con la maschera di una tigre che camminava per le strade del quartiere Tiburtino. Da lì poi mi sono fatto delle domande: “Perché c’è questa maschera? Perché non se la leva?“ la risposta è stata la storia. Quando scrivo è difficile che parto da un tema morale per poi raccontare attorno qualcosa, cerco sempre delle storie che vadano a mischiare vari generi differenti uno con l’altro con lo spostamento di contesti: la storia poi diventa il pretesto per raccontare quello che vuoi.

Nella maggior parte dei film che hai scritto c’è sempre un personaggio vittima del pregiudizio. È stato un caso o è una scelta voluta?

Ho delle tematiche a me care che porto con me, ad esempio: l’immaginazione che ti libera dal tragico della vita. L’ho quasi sempre usato: Alessia in “Lo chiamavano Jeeg Robot”, Adele ne “In viaggio con Adele”, “Tiger Boy”. Ho sempre avuto anch’io dei miti che mi hanno aiutato a superare certe situazioni. Come ad esempio Bruce Wilis, quando ho iniziato a perdere i primi capelli: ma quanto era fico Bruce? Il fatto dei pregiudizi è perché spesso li ho vissuti. Quando ho fatto servizio civile a Tor bella Monaca ho testato in prima persona il rapporto con il diverso: cos’è il diverso? Quanto ci spaventa? Rifiutiamo sempre qualsiasi cambiamento perche questo ci spaventa. Inconsciamente avevo un senso di stranezza, una sorta di pietà verso coloro che dalla società sono considerati deboli. Un giorno però sono rimasto colpito da questa scena:  c’era un tizio che passa davanti a un ragazzo con le stampelle, questo aveva una testa enorme e di punto in bianco gli dà un calcio dicendogli: “A stronzo, hai visto avete perso”. Quell’episodio mi ha fatto molto pensare, perché sai spesso si dice: “è più facile abbattere un muro che distruggere un pregiudizio”  e lui con quel gesto non aveva dato peso alla stampella. Tutte le volte, come questa, in cui si fa un passo avanti è qualcosa che mi emoziona, come nel cortometraggio “Due piedi sinistri”, dove alla fine gioco con il pregiudizio dello spettatore. Quando ho scritto questa storia e l’ho proposta a qualche produttore, i primi che hanno letto la sceneggiatura rimasero tutti stupiti dandomi dell’incivile, poi alla fine si sono accorti che in realtà gli incivili erano loro che leggevano, dato che la sedia a rotelle il ragazzino non la vedeva.

Al cinema è appena arrivato il tuo ultimo film “Non ci resta che il crimine”, scritto in collaborazione con Menotti, Andrea Bassi e lo stesso Massimiliano Bruno. Le atmosfere del film ci hanno ricordato un vecchio corto che oggi compie 10 anni come “Basette”, non trovi?

Ha quelle atmosfere. Pure in questo caso, quando venne l’idea, avevamo subito pensato di dare un superpotere a loro quattro. Spesso si cercano sempre gli alibi ai propri fallimenti. Noi abbiamo 3 4 personaggi che danno le colpe a qualcun’altro quando in realtà, i veri nemici sono loro stessi, allora sai che abbiamo fatto? Sai che c’è? Mandiamoli 30/40 anni prima con il superpotere della conoscenza rispetto agli altri. Infatti poi questo film si trasforma nella storia di 5 amici che partono per questo viaggio, ma trovano qualcosa di più prezioso: la loro amicizia. La storia ci racconta del superamento delle paure che bloccano la maggior parte della nostra vita.

Nel tuo lavoro scrivi frasi che poi altri devono recitare. In questo ultimo film come si scrive una battuta a uno come Marco Giallini?

E’ più facile di quanto credi dato che io quel romano ce l’ho, lo parlo. Ci sono attori che hanno quel talento magico, che possono leggere l’elenco del telefono e farti ridere. Basta pensare a Ilenia Pastorelli, anche lei ha questa dote, Marco è identico. Li quando hai 4/5 protagonisti così ben affiatati puoi capire facilmente le dinamiche narrative. La coppia comica che salta all’occhio è molto facile: Gassman Giallini. Questi legami sono sempre formati da Don Chisciotte e un Sancho Panza e ovviamente devono sempre differenziarsi anche “lombrosianamente” parlando.

Questo film andrà al cinema e noi consigliamo a tutti di vederlo. Ma oggi, secondo te, la settima arte ha ancora senso?

Io non sono un nostalgico difensore della sala a tutti i costi. Spesso sentiamo dire che la gente non va più al cinema ma non è certo colpa delle storie. “La befana vien di notte”, ”Moschettieri del re” e “Amici come prima” hanno incassato e hanno dimostrato che c’è un mercato e la gente va al cinema. Oggi credo che le sale cinematografiche debbano migliorare a livello di esperienza che da altre parti non puoi provare. Qualche sala già sta aggiungendo dei servizi in modo tale da per rendere la visione cinematografica un momento unico. Da un punto di vista di chi scrive storie: ti dico di sì. Sai qual è il segreto? Creare un mix perfetto tra sceneggiatori-registi e produttori, ragionare con un cervello unico. Nella mia esperienza sono stato molto fortunato ma Jeeg funziona così bene proprio per questo motivo, spero questo film possa replicare quel successo.

Info sull'Autore

Laureando in Ingegneria Gestionale presso l'università di Tor Vergata, da sempre appassionato di cinema e inviato per eventi cinematografici per Corretta Informazione.

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